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Prodotto da Alessandro Ducoli. Scritto e arrangiato da Alessandro Ducoli e Mario Stivala (testi di Alessandro Ducoli). Suonato dai Bartolino’s: Mirko Spreafico, Alessandra Cecala, Andrey Kutov, Mario Stivala, Alessandro Ducoli. Registrato, mixato e masterizzato da Valerio Gaffurini e Claudio Lancini all’XTR Studio (febbraio-marzo 2008). Grafica di Armando Bolivar (illustrazioni © L’Aventurine - Parigi, 2001; foto © Fabio Gamba - Phocus Agency). Grazie a Paolo “Crazy” Carnevale, Massimo Piliego (Altri Suoni), Paolo Mazzucchelli, Lina Milani, Massimiliano Arvati e Francesca Vischioni.

 

Available

 

 

(…) Ho sempre pensato che i pazzi fossero tutti portoghesi. Invece ho scoperto che la follia non è un marchio di bandiera ma una malattia che travalica confini di ogni genere. Ho passato tre anni a inseguire il Ducoli per due motivi principali: mi deve ancora dei soldi (e nemmeno pochi); devo capire se fà i dischi per avere una buona scusa per non pagarmi. In tre anni l’ho visto due sole volte e sempre a Lisbona. Sempre per consegnarmi la sua ultima “fatica discografica”. Ogni volta è sempre di fretta. Ogni volta mi supplica di capirlo se a volte non è del tutto chiaro in quello che dice e fa. Ogni volta senza parlare dei soldi che gli ho prestato per comprarsi una barca che credo nemmeno abbia mai visto nessun tipo di onda. Io penso di essere un gentiluomo e penso anche che tra gentiluomini non occorra parlare di certe cose. Quindi non ne ho parlato. Evidentemente lui non è il gentiluomo che vorrebbe sembrare.

 

Comunque a parte questo mi ha lasciato questa Artemisia Absinthium. Lo ha registrato in inverno perché dice che un disco estivo viene meglio se lo canti quando fa freddo. Dice che ci si mette più desiderio di caldo e alla fine il caldo viene fuori davvero. Questa premessa da sola ha contribuito non poco ad avvicinare questo disco alla pattumiera sotto il mio lavello. Le mie recensioni varranno anche sempre di meno ma conservo ancora un po’ di principio. Quindi ve ne parlerò quando risolverà le nostre vecchie questioni. Per ora vi dico solo quello che mi ha scritto l’altro ieri quando è tornato in Italia: “Ciao Max, ti piace l’Artemisia!? È un disco da paura. Mi è costato un sacco di sacrifici ma suona davvero come speravo. Le canzoni le ho scritte quasi tutte con Mario per cui ci troverai un po’ meno delle solite cose che ripeto sempre quando faccio da solo. A parte tutto, quando fai la recensione mandamela prima perché vorrei essere sicuro che hai capito cosa dice questo disco. Non per correggerti le recensioni ma semplicemente perché ho sempre paura di essere frainteso. Dimenticavo … la Malaspina è ancora attraccata giù al porto, alla fine non sono riuscito a pagare le spese per sistemarla e se la sono tenuti quelli lì. Se vuoi riscattarla dicono che dopo quasi cinque anni i costi sono un po’ lievitati ma nemmeno di tanto. In caso facciamo che la riscatti tu e siamo pari di tutto. Sei un vero amico. Ciao”.

 

Credo che aspetterò ancora un po’ prima di parlarvi di questa Artemisia. Sempre che nel frattempo non sia finita sotto il lavello. Ciao.

 

 

(Maximillian Dutchman. Lisbona, 27 marzo 2008)

 

 

 

Ducoli, Piccoli animaletti (2010)

 

 

Mojita

Meridiana

Artemisia

Arti e mestieri

L’armistizio

Il secondo giorno di maggio

Rosa del vento

 

 

La Malura

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(22 agosto 2008)

 

Piccola creatura

Animale preparato a fuggire

Piccola sfumatura nera

Disegno preparato a viaggiare

.

Aiutami a trovare il senso, penso

Che sia davvero necessario

Dobbiamo valutare meglio, ancora

Prima che decidano loro ogni volta

.

Piccola creatura

Animale che ha imparato a capire

Anima da non controllare, mai

Chiusa sempre nel cortile

 

Liberami la catena, la pena

Patisce tutta la mia schiena

Guardate come siamo tristi alla sera

Si spera che ci porti via l'anarchia

 

Togliete quelle mani sporcate di niente

Riempite della solita unità di misura

Ripeto la richiesta di restare da solo

Senza i vostri occhi sulla nostra Malura

Liberate la mia bella creatura,lasciatela pura

 

I miei 100 difetti

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(24 luglio 2008)

 

Odio questa noia

Gioia obbligatoria

Mai è necessaria

Con la musica nuova

 

Odio la tua bella storia

Odio la mia corta memoria

Dimmi che cosa ti aspetti

Dai miei cento difetti

 

Odio fare senza

Riduce la residua pazienza

Mette il cattivo umore

Il difetto di un cuore

 

Passeri e passere che assaggiano il vento

… due gocce di acqua

Volano e scendono a toccare la terra

… il pane e poi l'aria

 

Solita cosa, la solita storia

Sempre uguale, quasi abituale

Ancora una volta, ancora sempre

Voglio che mi dici cos'è

 

Una Silvia

Testo: Ducoli

Musica: Kutov

(1 maggio 2008)

 

... lei e’ un'ala nell'aria

Io qui che ti guardo volare

Anima in fiore che s'offre all'amore

Offre canzoni al silenzio che tace

 

... lei si sposta sul ramo

Io non ti posso toccare

Anima in fiore non soffre d'amore

Offre canzoni al silenzio che ascolta

 

Cadono gocce dal cielo

Adesso che piangono gli alberi e il giorno

 

Una nuova citta’

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(6 giugno 2008)

 

Dentro il pomeriggio della tua citta’

Dentro le sue sfumature e le sue scritte sui muri

Sono stato un viaggiatore soltanto a meta’

Sono stato un uomo buono e non avuto paura

 

Ero dentro alla stazione quando il treno partiva

Quando la mia situazione non parlava o diceva

C'erano le luci accese, erano tutte cattive

Mentre il pomeriggio cambiava, poche le alternative

 

Dentro il pomeriggio di questa citta’

Passano locomotive, vanno tutte di la’

Sono sempre un viaggiatore meno della meta’

Sono diventato cattivo, per la necessita’

 

Dentro il pomeriggio di una nuova citta’

Cerco una collocazione per la mia situazione

Mentre faccio finta di niente

Non e’ mica importante

Passeggio come tutta la gente ...

Che arriva e che va’

 

Sto solo provando a fare le cose

Che adesso mi vengono meglio

Le altre le ho lasciate davvero da sole

Erano un continuo sbaglio

Guardo la tua meraviglia preziosa

Ancora come fosse ieri

Niente delle cose che sono qui intorno

Dicono che cosa eri

 

Il Mulo

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(23 agosto 2008)

 

Che belle faccine bugiarde

Mai che siano davvero gentili

Guai, farsi capire vuol dire

Si cambia quasi tutto il gioco

 

Che belle caviglie, maniglie

Belle meraviglie di gambe e di sambe

Guai, avere ragione non serve

Niente, nemmeno un cuore

Niente, nemmeno il cuore

 

Che brutte faccine arroganti

Mai che una siano volta accoglienti

Guai, nessuno di noi puo’ capire

Anche se ci basta poco

 

Che belle le figlie del Giglio

Guai, le spoglia l'arsura di luglio

Mai che siano cedute all'amore

Niente, nemmeno un cuore

 

Guardo ancora una volta il cielo

Studio la mia alternativa di volo

Guardo ancora una volta il tuo culo

Mi tocca di essere sempre il tuo mulo

Ancora una volta il tuo mulo

 

Cinciallegra

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(7 novembre 2008)

 

Il solito andare del tempo

La solita vita distante

L'unica cosa che adesso e’ ...

Davvero importante ...

 

La stessa misura del giorno

Solita andata e ritorno

L'unica cosa che adesso e’ ...

Davvero importante, e’ determinante

Non mi lasciare ancora da solo

Non mi lasciare ancora senza niente

 

Il solito soffio di vento

Il tuo perfetto momento

L'unico senso che sembra vero

Io sono sincero, lo dico davvero

Non mi lasciare ancora da solo

Non mi lasciare ancora senza niente

 

L'unico andare del tempo

Tutta la vita distante

L'unica cosa che sono, io

Un animale stanco, un animale pronto

E tu mi lasci ancora da solo

E tu mi lasci ancora senza niente

 

Il Laccabue

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(11 novembre 2008)

 

Un po' di arancione e  dopo il rosso

E dopo il marrone

Tutti i colori che diventano uno

E diventano zero ...

Prima il nero e dopo il grigio

 

Mi serve anche il giallo, per la coda del gallo

L'asino e il bue mi diventano due

Diventano il cielo turchino

Diventano il vino e il mattino

E subito dopo il mio cane

Bianco e nero, tutto grigio

 

Io ti disegno una tigre e un leopardo che guarda

Coi denti di cento serpenti

Con le zampe del ragno e della sua ragnatela

Costruita sull'angolo alto della mia ultima tela

Il motore della Guzzi batte la testa di tutti

 

Sulla strada di fango

Si vedono i riflessi del sole rotondo

Non chiamarmi “Il Tedesco”, Francesco

Prestami soltanto le tue

Che sono sicuramente meglio di tutte le mie

Sono 'l Ma’t, il Laccabue, l’era gia’ morto sto ga’t

 

Piccoli animaletti

Testo: Ducoli

Musica: Ducoli

(22 luglio 2008)

 

Dopo un pomeriggio di vento e di pioggia battente

Un raggio di sole tardivo ti illumina il viso

Osservo due lumache sul muro, il passare di un'ora e del tempo

L'acqua torna ad essere un fiume di prezioso silenzio

 

Forse non ci credo per niente che hanno vinto la guerra

Che daranno un'altra forma diversa a tutta la terra

Che hanno avuto per davvero la forza di fermare la pioggia

Comandati dalla stessa arroganza di due zampe da uomo

 

Voglio solamente pensare che non servono a niente

Che mi basta stare fermo e guardarti camminare tra i gelsi

Mentre il pomeriggio comincia a diventare un ricordo

Il giorno lascia il posto alla sera in un respiro piu’ corto

 

Noi non siamo esseri umani

Imperfetti nelle solite cose

Siamo diavoli e difetti normali

Sensazioni e sentimenti, siamo solo animali

Noi non siamo gli  esseri umani

Siamo niente che non sia piu’ importante

Siamo solo le creature animali

Sensazioni e sentimenti, davvero normali

 

Niente di nuovo di stupefacente

Niente di niente, nemmeno la gente

Noi siamo niente che non sia vivente

Siamo niente di buono, non siamo importanti

E allora niente perdono, non saremo mai santi

Proprio niente di niente, non ci sono innocenti

Siamo niente di niente ma non e’ sufficiente

E allora niente di niente, più’ niente di niente

 

Un germano irreale

Testo: Ducoli

Musica: Ducoli

(22 agosto 2008)

 

Una bufera d'amore

Passano mille stagioni

Io sono niente ma provo a cercare

La mia consequenzialita’

 

Ma i fiori hanno facce migliori

Di quelle che il giorno regala alla mia

Non danno nessuna risposta

Che dia una misura minore alla tua

 

In questo disastro di aprile

Mi sento un germano irreale

Finito nell'acqua non so galleggiare

Mi sento che sto per finire

 

Sul greto del fiume la rosa canina

Rivolge le guance alla luce

Un respiro di vento trasforma le foglie

Nell'attimo della tua voce

 

Una bufera d'amore

Lasciami qui per volare

Lascia le onde del fiume cullare

La piccola mia ingenuita’

 

Dialogo di guerra

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(28 novembre 2004)

 

Una infinita riserva di idee, le mie

Ancora preziose, gelose di essere sempre lasciate seconde

Lasciate un istante a guardare le gocce cadere sul vetro

Davanti ai miei occhi che aspettano ancora in silenzio

 

Una goccia, un'altra ancora

Sopra il filo della luce

Sopra le rondini appoggiate

Sopra il bordo, osservo e guardo

Una goccia trattenuta

La mia scorta personale

Di minuscole riserve, lacrime d'oro

Lasciate andare

 

Le vostre schifose, arroganti menzogne

Protetti da sempre da qualche padrone

Di ladri assassini di gente che ha fame, ancora

 

Una goccia di acqua e sale

Sono in fila per il rumore

Nove metalli a galleggiare

Il nostro veleno lo porta il mare

Una goccia che riempie il vaso

Aiuta il fiore a respirare

Sono la voce che può gridare

L'anima parla, mi parla ancora

 

(Ilaria Alpi. Roma, 24 maggio 1961 – Mogadiscio, 20 marzo 1994)

 

Sopra il davanzale

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(6 giugno 2008)

 

Nel profumo delle viole

Riconosco il tuo sapore dolce

Io, sono stato un giardiniere

Conosco i fiori

 

Nel colore della sera

Riconosco il tuo vestito chiaro

Io, sono stato anche un pittore

Nel chiaroscuro e nero

 

Nel silenzio della siepe

Riconosco ancora la tua voce

Io, sono stato un violinista

Ti ho vista sola

 

Nel mio cuore il sentimento

Riconosce ancora la tua forma

Io, sono stato un romanziere

Non servono parole

 

Questa orchestra sta finendo

Mentre il mondo sta iniziando adesso

La promessa che vorrei non e’ la stessa

Ma va bene uguale, sai

Che anni mi dai, con quale nome vuoi

 

Il carro

Testo: Ducoli

Musica: Stivala

(5 giugno 2008)

 

Noi che tiriamo il carro

Non ci stanchiamo mai

Abbiamo la schiena dura

Dicono che siamo eroi

Noi abbiamo fatto il callo

Siamo dei marinai

Siamo la parte sana

Siamo davanti ai buoi

 

Noi che tiriamo il carro

Non ci fermiamo mai

Abbiamo la testa dura

Dicono che siamo noi

Noi siamo quelli buoni

Noi siamo quelli giusti

Siamo la parte scelta

Noi non diciamo basta

 

Noi che tiriamo il carro

Non ci opponiamo mai

Abbiamo le mani forti

Meglio di cento buoi

Noi non vogliamo niente

Noi non abbiamo sete

Siamo la parte pronta

Davanti c'e’ solo il prete

 

Passa e poi ritorna

 ... lei passa e ritorna da noi

 

 

Mentre lei ci sventola mille bandiere

Proprio lei ci agita il fazzolettino

Sudato d'amore, pieno di sole

Tira il carro prima che finisca questa

 

Rattus

Testo: Ducoli

Musica: Kutov

(17 agosto 2008)

 

Aria di tempesta

Risposta troppo corta un “sì”

Si sente in giro l'ansia

Che sbatte la finestra

 

Arriva la tempesta, vola via il cappello dalla testa

Volano le foglie per la strada sotto casa

Volano le tortore sul tetto della chiesa

L'acqua ormai funesta, rompe la finestra alla mia buca

Lucida la strada con un metro di rugiada

Prende la mia coda e mi allontana dalla riva

 

Pioggia a catinelle, galleggiano per strada le smarrite pecorelle

Segnate dagli eventi e non contente del momento

Andranno con il fiume dove vuole la fortuna

Galleggiano anche i fratelli, aspettano che torni qualche luna

Poveri somarelli, nessuno ci ha creduto che bastava un solo istante

Andranno più distante per davvero

 

Un primo segnale e mille gocce di pioggia

Aria di vento che diventa bufera

C'era la strada dove adesso c'è l'acqua

C'era una casa, era tutta intera

 

Le renne sulla neve perenne

Testo: Ducoli

Musica: Ducoli

(26 dicembre 2008)

 

Santo Nedàl, pargòl de 'i

Persa la cràpa, la resta la giàca

Santa Pazienza, la me làga amò senza

La dìs ché la nòt, la 'òl mìga beshòc

Santo Catìf, fò fadìga a capì

Persa la gamba, tacàda a la banda

Santa Sfurtüna, l'è bianca la lüna

L'è negra, l'è üna, l'è hempèr a' chèla

Santa Miseria, la cünta la storia

La gira, la 'olta, l'è cürta, l'è storta

Santo Demonio, go 'it la paura

Antonio l'è ùra de dàga 'a la sciùra

 

Santo Nedàl, la fà màl …

 

Santo Natale, il Bambino è ubriaco

Ha perso la testa, si vede solo la giacca

Santa Pazienza, mi lascia sempre senza

La notte è questione da grandi, pazienza …

 

 

 

 

PICCOLI ANIMALETTI

 

I cattivi sentimenti

 

2009

 

 

Cap. I      Quando si dice “un ordinato preludio”

Cap. II     L’inizio di una “complicata faccenda” durata dieci lunghi anni

Cap. III    Il rivelatore segnale di uno spostamento di foglia prima della grande tempesta

Cap. IV    L’anima polverosa delle cose dimenticate in fondo alla cantina

Cap. V     La strana condizione di ”Malura”

Cap. VI    Il complicato concetto dei silenziosi cento difetti

Cap. VII   La strana inconsapevolezza che hanno certe silvie

Cap. VIII       Il compromesso scaturisce sempre storto nel serrato dialogo di guerra

Cap. IX    Il domestico volo della cinciallegra e la diffusa “perdita del filo logico”

Cap. X     La storia non comune di molti piccoli animaletti

Cap. XI    La complessa teoria dell’accensione del motore della Guzzi del mio amico Laccabue

Cap. XII   L’ingiusta condanna senza processo del mulo

Cap. XIII       La fragile ruota del carro che procede sul greto morto del fiume

Cap. XIV       Il vaso delle viole sopra un davanzale suscita quasi sempre dei buoni sentimenti

Cap. XV   Le difficili idee alternative di un “germano irreale” tra i germani reali

Cap. XVI       Una “nuova città” non significa necessariamente che sia diversa da quella vecchia

Cap. XVII      Quando si dice “è arrivato il momento di agire”

Cap. XVIII    L’ottimistica ideologia del ratto

Cap. XIX       L’altra faccia della sfortuna non sempre si chiama fortuna

Cap. XX   Tutte le nostre personali teorie sull’inizio e sulla fine delle cose

 

 


Cap. I Quando si dice “un ordinato preludio”

 

He prayeth well, who loveth well, both man and bird and beast

 

Questo è il mio divano. Il mio angolo di divano, sfondato. Con dentro ancora l’odore del cane. Polvere. Oggetti. Il baule che uso come tavolino. Questa è la bilancia da tre grammi per le “fumate lunghe”. Poi ci sono le scatole Paul Olsen1. Poi le Peterson, le Moretti, Brebbia, Mastro de Paya, Ser Jacopo, Savinelli2. Ci sono scovolini in nailon e cotone. Un’armonica il La maggiore. Sigari e scatole vuote di sigari. Il libro delle frasi celebri. Il manuale tascabile di degustazione per malti. Fiammiferi. Cenere e posacenere. Un bicchiere del Lochside Hotel3. Un sacco di altra robaccia. Tutta ammucchiata sopra il mio “tavolino”. Così ben disordinata da sembrare ordinata.

 

Negli altri angoli della casa la situazione è esattamente la stessa. Altri bauli, riempiti con “cose” che vanno tenute lontane dalla luce (alcune preziose, altre meno). Due finestre, chiuse. Dietro di me la cucina, uguale a prima. Bicchieri e piatti ammucchiati. Una pentola con uno spaghetto rinsecchito che gli penzola da un lato. La moka rovesciata sul fornello, scura, bruciata. C’è un cadavere di vaschetta per il prosciutto appoggiata sul ripiano del pane. Una scatola con dentro strani biscotti. Nell’angolo del muro c’è il frigorifero, aperto, quasi vuoto. C’è una scatola di cibo per cani con dentro una forchetta. Sopra il frigorifero c’è la vasca dei pesci rossi, ha uno strano colore. Ci sono anche bottiglie appoggiate su varie mensole. Libri, musica e altre cose. Fotografie in bianco e nero, fotografie a colori. Disegni colorati e altri un po’ meno. Ragnatele. Sotto il mobile grande, vicino ad una macchia scrostata e riempita di muffa, c’è un calzino accartocciato. Abbandonato. Solo.

 

Tutto qui. Esattamente come lo avevo lasciato dieci anni prima.

 

(…) Forse sono stato io stesso a chiedere che nessuno si prendesse la briga di dare un’altra forma o un altro ordine alle mie cose. Non ricordo. È stata una richiesta? Una supplica? Un testamento? O più semplicemente a nessuno è venuto in mente di entrare qui dentro dopo quello che era successo!? In tutto questo tempo il pensiero che durante la mia assenza mi avrebbero rubato ogni cosa, comprese quelle buone, era sempre stato malvagio e presente. Invece niente di tutto questo. Meglio così. (…)

 

Cap. II L’inizio di una “complicata faccenda” durata dieci lunghi anni

 

That girl deserves her revenge. And we all deserve to die.

 

Sono passati dieci anni e non capita tutti i giorni. Soprattutto se neanche te ne accorgi. Non so cosa dire. Davvero. Non ci riesco. Ho avuto poche occasioni di dialogo in questo tempo. Anzi, pochissime. Non riesco a ricordare più niente. Dovrei pensarci un po’, un attimo solo, magari solo il tempo necessario a rimettere insieme i pezzi di tutta questa “complicata faccenda”. Forse un po’ di più, devo assolutamente riuscirci. Ma in questi anni devo aver perso la mia proverbiale dimestichezza mentale. Ho pensato sempre da solo, senza mai confrontarmi con nessuno, e i miei pensieri, così uguali e ripetuti, hanno perso ogni tipo di importanza. Sono diventati nient’altro che dettagli. Capisci!?

 

La cosa meno confusa che ricordo? La nostra sconfitta. Perché di sconfitta si deve parlare. È andata proprio così. Bastardi! Malvagi! Ci hanno punito. Puniti e condannati. Senza appello, senza nemmeno alzare un dito. Senza nemmeno sporcarsi le mani. Almeno così credo che sia successo… hanno lasciato che fossero i loro stessi burattini a mettere i fili anche a noi. Altro che terzo grado di giudizio, terzo grado e basta, catturati per aver catturato qualcosa che non dovevamo nemmeno toccare. Oppure è stata questa stessa cosa a catturarci? Non ricordo, questo non lo ricordo. Non ricordo neanche questo. È da un pezzo che continuo a pensarci, molto, fino a sbattere la testa nel muro, e senza cavare un ragno dal buco. Ci ho cavato soltanto che mi fa male la testa. Molto male…

 

(…) Le cose a volte non vanno come credi. Di solito vanno come hanno voglia di andare... sempre. E non c’è verso di farle andare in un qualsiasi altro modo. Io ero così abituato a stare attento a come andavano le cose, che avevo addirittura imparato a stringere forte le chiappe per evitare che potessero andare peggio. Abbiamo un culo soltanto e offrirlo distrattamente alla sfortuna sarebbe davvero uno spreco. (…)

 

Cap. III Il rivelatore segnale di uno spostamento di foglia prima della grande tempesta

 

I got a thing about chickens.

 

C’erano un sacco di cose da fare e tutte furono fatte. Anche bene. Molto meglio di com’eravamo abituati.

 

Io stavo in guardia come mai mi era successo prima. Sapevo che questa volta occorreva essere precisi e puntuali. Non volevo lasciare a nessuno la briga di trovare occasione per inguaiarci. Eravamo stati puliti fino a quel giorno e così doveva essere anche per i giorni seguenti. Tutto era stato studiato nel minimo dettaglio: le mappe, gli orari, la gente, le azioni, il clima, la temperatura, ogni sasso, ogni spostamento di foglia. Anche il piano di fuga... Poi, improvvisamente, tutto è diventato confuso, tutto stava per diventare tempesta. Serviva maggiore attenzione, ancora di più. I pezzi del nostro prefetto castello di idee avevano cominciato a non combaciare così bene come invece ci era sembrato, c’era la fretta ad occupare ogni azione, dovevamo decidere se era davvero il momento di agire o se era meglio fermarsi e lasciar perdere tutto. Abbiamo aspettato. Poco, purtroppo...

 

Era comunque un periodo difficile ed io, ad ogni buon conto, evitavo di coinvolgermi in troppe cose per non rivelare fino in fondo quale fossero le nostre nuove intenzioni. La nostra città, dal canto suo, era come sempre occupata nelle sue faccende e soprattutto sembrava sempre più abitata dai Malvagi, compresi quelli inconsapevoli della loro manifesta malvagità. Io non volevo mischiare i miei affari con i loro, non mi andava per niente. Non ci riuscivo e quasi pensavo di essere al sicuro da tutto e da tutti. Ma anche nella città vige la stessa “regola di sempre”: la Sopravvivenza. E così è necessario adeguarsi se si vuole sopravvivere. Ma io non ci sono riuscito, ecco perché il mio pensiero diventò sempre più cattivo e vendicativo. Ma forse era solo legittima difesa...

 

(…) Io mi siedo spesso al banco del bar. Soprattutto quando ho i miei pensieri addosso. Guardare le bottiglie mi evita la distrazione di guardare gli angoli dietro di me; è una buona “via di fuga” per il libero pensiero. Ma è anche un po’ snob, lo so. Ed è soprattutto una brutta cosa se diventa abitudine. (…)

 

Cap. IV L’anima polverosa delle cose dimenticate in fondo alla cantina

 

Like a dog without a bone

 

In quel periodo dormivo quattro ore ogni venti. Ogni tanto inserivo altre quattro ore di sonno tra le venti che ero sveglio. Tra una cosa e l’altra invece studiavo ogni loro mossa. Studiavo le azioni, l’ambiente naturale. Studiavo tutte le cose che li riguardavano. Loro invece non facevano assolutamente nulla… o almeno così sembrava. Perché in effetti erano molto occupati per prepararsi ad accoglierci con tutti i loro “gentili fucili” spiegati: sapevano tutto prima ancora che “tutto” avesse inizio. Qualcuno li aveva informati...

 

Noi eravamo consapevoli di essere degli “sbandati”, così come sapevamo che prima o dopo ci avrebbero comunque “blindati”, ma finire traditi in quel modo fu davvero difficile da ammettere. Anche perché per noi non era importante vincere, era invece più importante vederli perdere. Niente di più. Loro erano delle vere e proprie “fuori serie”, mentre noi eravamo nient’altro che dei “fuori catalogo”, eravamo “niente”. Niente di più che un fondo di magazzino lasciato lì ad ammuffire prima dell’inclemente inventario annuale. Svenduti o regalati nella migliore delle ipotesi, mandati al macero nella più probabile delle ipotesi rimanenti.

 

Servirono non pochi e meticolosi pomeriggi d’indagini per completare l’analisi di come organizzavano la faccenda… nonostante fosse tutto “abbastanza ordinario”.

 

C’erano i Capoccia che mettevano il Grano, una parte stimata non oltre il dieci per cento dell’incasso finale. Al di sotto dei capoccia c’erano una serie di fidati Subalterni, perfettamente istruiti. Il loro compenso era stabilito in una percentuale comunque non superiore al venticinque per cento dell’incasso finale. Se le cose andavano male la colpa era loro e non certo dell’investimento iniziale. Si trattava di dei veri e propri “cani da sangue”… poi c’era la Manodopera, quelli che “producevano il grano” e nient’altro. Ogni cosa che facevano non aveva nessun’altra definizione che grano. Più o meno inconsapevoli, il loro compenso era niente, praticamente niente… e forse questa è l’unica nota positiva di tutta la storia. Poi c’era l’Utente finale, quello che pagava con “grano corrente” la sua buona dose di Merda, pagata tanto o poco non importa. Era comunque un’assurdità: ... la merda avanza per tutti e pagarla mi sembra un po’ da coglioni. Ma vista così può anche suonare come “giustizia”: … se non ti basta la merda che hai, prenditi anche questa, costa davvero poco, è quasi gratis!

 

Non credo ci sia niente di nuovo in quello che ti ho detto. Sono sicuro che hai molti esempi analoghi anche tu. Ma forse c’è una cosa che non ti è ancora chiara: … il vero problema non era come andavano le cose; il vero problema era che quelli che se ne stavano più o meno consapevolmente ai margini della partita, venivano comunque esclusi da ogni ipotesi di gioco. Indipendentemente dalla Merce che avevano da proporre e ancora di più se si trattava di “merce” migliore. Quando facevano passi troppo lunghi, infatti, erano considerati un disturbo di cui disfarsi senza troppi complimenti, con ogni mezzo disponibile, meglio se pulito o certificato ma non necessariamente. Così andavano le cose, capisci!? Era un perfetto regime di monopolio. Assolutamente certificato: … il Monopolio della merda. Vagliato e protetto dalle leggi che pensavano e si approvavano loro stessi.

 

(…) Se accetti di giocare una partita truccata, o hai giocato tutti i tuoi risparmi sul risultato “necessario”, oppure lo fai perché sei minacciato; oppure ancora perché sei pagato per farlo. Qualcuno la gioca anche solo per il gusto di “spaccare distrattamente” qualche caviglia, ma in genere si cura molto bene di garantire il  risultato concordato. Altri invece stanno fuori dal gioco. Nella maggior parte dei casi è così. Poi ci sono alcuni “distratti giocatori” che la vogliono giocare per cambiare il risultato. Ma sono dei pazzi. Li trovi soprattutto nei libri delle bancarelle dell’usato e in qualche consumata pellicola dal sentimento facile… (…)

 

Cap. V La strana condizione di ”Malura”

 

Come la pioggia tutto vien giù a secchi oppure non viene affatto.

 

(…) Quando osservo un animale rinchiuso allo zoo non mi riesce mai di capire quale sia la sua vera condizione. Non è rabbia, a volte nemmeno rassegnazione e nemmeno sconfitta. È qualcosa di diverso, forse di molto cattivo e latente. È una strana condizione che ho chiamato Malura perché non mi viene niente di meglio… (…)

 

Avremmo dovuto aspettare ancora un po’, senza precipitare le cose. Lo ammetto. Perché non eravamo ancora del tutto preparati… Maledizione!… quando la fretta si mette di mezzo alle cose, le cose ti riescono sempre male. È sempre così. Altrimenti è fortuna, e sinceramente io e la fortuna siamo andati d’accordo soltanto un paio di volte. E sempre in occasioni non troppo importanti. Le nostre intenzioni iniziali erano rivolte alla creazione di un “piccolo caos”. Un piccolo semplice caos di avvertimento. Niente di cattivo… forse. Solo per far capire a quei vigliacchi che qualcuno si era davvero stancato di tutta questa storia bugiarda. Era l’unico modo per farli uscire dal guscio e capire definitivamente con quali facce si aveva a che fare. Il resto sarebbe dovuto accadere immediatamente dopo: il vero attacco finale.

 

Io credo che ci sia una grande differenza tra una Variabile imprevista e una Variabile sabotatoria: un’imprevista bufera di vento e di pioggia durante un bombardamento può anche condizionare le linee di mira e di conseguenza determinare anche il fallimento dell’intera manovra di attacco; il sabotaggio dei cannoni invece manda comunque tutto nel fosso. La variabile imprevista la puoi anche tollerare perché appartiene alle “normali regole di guerra”, ma il sabotaggio è doppio gioco, è cattivo, è subdolo, non appartiene alle “buone regole della guerra”. Non lo puoi tollerare, soprattutto se è causato da qualcuno che sta dentro al tuo “perfetto e ben oliato” marchingegno. Il sabotaggio ti lascia davvero senza parole. Ti lascia per qualche secondo con la stessa faccia di quelli che hanno acceso il fiammifero per controllare se c’è ancora benzina nel serbatoio…

 

(…) Mi sentivo come la sfumatura scura che determina la profondità del disegno. Mi sentivo anche molte altre cose ma questa cosa della profondità del disegno mi sembrava più efficace, più analitica. Certamente la forma più elevata tra tutte quelle disponibili per descrivere lo stato d’animo che avevo in quei momenti di certezza dell’azione. A volte invece mi ero sentito come il disegno sbiadito, una volta invece ero stato il disegno finito nell’acqua, un’altra volta finito nel fuoco … un’altra ancora addirittura nel cesso … (…)

 

Cap. VI Il complicato concetto dei silenziosi cento difetti

 

300.000  ettari di bosco andati in fumo, bruciati per lasciare il posto alle praterie di cui avevano bisogno gli allevatori di bestiame.

 

La vita di tutti è riempita di leccapiedi, di ladri, di avidi e di bugiardi. Non è certo una novità e francamente non è nemmeno un problema. Il vero problema è essere certi di non appartenere a nessuna di queste “categorie”. Per me era così…

 

Forse ero stato solo un po’ presuntuoso, ma nella mia bilancia delle azioni, quelle buone avevano sempre avuto un peso maggiore di quelle cattive, o almeno lo credevo. Come ho sempre creduto che ognuno di noi abbia un suo personale progetto di vita. Perché anch’io ne avevo uno, e pensavo che questo progetto potesse vivere da solo senza troppe complicazioni e senza sovrapporsi ai progetti di nessun altro individuo. Non mi interessava nemmeno interessarmi di altri progetti. Il mio progetto mi assorbiva così tante risorse che non me ne avanzavano altre. Ma non è così che vanno le cose… la realtà è quasi sempre un’altra.

 

All’inizio di tutto, ad esempio, pensavo che i rispettivi disegni avrebbero potuto vivere una vita indipendente, libera, come se avessimo avuto tavolozze diverse su cui ognuno dipingeva quello che gli andava di dipingere. In libertà. Invece non era così: … la tela su cui dipingiamo è la stessa per tutti. E così il mio piccolo spazio cominciò ad avere colori troppo diversi dagli altri. Cominciò a “disturbare” l’equilibrio dei colori scelti per il resto della tela. Il risultato fu semplicemente questo: quella che fino a quel giorno sembrava essere una libera convivenza, stava cominciando ad assumere i connotati di una guerra.

 

C’era in giro molta gente che non aveva niente da dire e invece la diceva comunque... Anche io dicevo le mie cose, ma accontentandomi di raccontarle in silenzio. Quasi senza chiedere niente. Mi limitavo ad avere qualche periodo di sconforto in cui pensavo che forse ero davvero mediocre. Ma cosa importa: … se fai quello che fai senza disturbare nessuno perché preoccuparsene tanto!? Il vero problema iniziò quando crebbe in maniera incontrollabile la sensazione di obbligo a dover riconoscere il valore altrui. Non mi andava di sostenere che i colori del loro disegno fossero meglio dei miei. Io osservavo il quadro sempre e soltanto dal piccolo angolo di tela che mi avevano concesso. Mi era quasi sembrato che tutti i colori che stavano intorno al mio disegno fossero semplicemente funzionali ad accrescerne il valore, come se si trattasse di una perfetta cornice. Nelle mie presuntuose elucubrazioni analitiche, pensavo infatti che la debolezza degli altri colori potesse mettere in chiara evidenza i colori che avevo scelto io. Ecco cosa pensavo, ma non era un giudizio, era una sensazione, personale, taciuta, e a me bastava. Non mi serviva nient’altro che continuare a completare la mia parte di tela, quasi consapevole che loro, continuando in quella direzione, non avrebbero fatto nient’altro che completare la cornice del mio “capolavoro”. Invece non è stato così… Mi hanno chiesto di smettere. Hanno chiesto il mio spazio perché il loro non era più sufficiente. Mi hanno chiesto di abbandonare il mio disegno perchè il completamento di quella fredda cornice lo richiedeva. Nient’altro. Ecco perché ho iniziato ad esternare giudizi, ma non era nella mia indole. Non tolleravo il giudizio sul mio lavoro e non capisco perché avrei dovuto esprimerne su quello degli altri… Così ho iniziato ad odiarli. Prima in silenzio, sempre un po’ di più. Poi ad alta voce, sempre un po’ di più.

 

(…) Io mi sono sempre soltanto preoccupato di non peggiorare le cose che già stanno bene. Può sembrare un concetto facile ma in quegli ultimi tempi sembrava diventato utopia. Non mi interessava nemmeno l’opinione diffusa che per fare davvero qualcosa, sulla bilancia che definisce il tuo peso finale, è necessario metterci anche qualcosa di ingiusto e sbagliato. Forse è stato anche questo a far cadere il mio piatto… (…)

 

Cap. VII La strana inconsapevolezza che hanno certe silvie

 

È tardi, tra i rami sul Ticino un beccaccino sfiora le foglie, travolto dagli spari

 

Nelle mie molte “giornate normali” mi capitava spesso di fermarmi a guardare le cose. Avevo dei buoni tabacchi e molti distillati che mi aiutavano anche a capirle. Era meraviglioso. Mi divertivo a scegliere tra le mie pipe quella che meglio avrebbe potuto, in quel momento, rappresentare il solista dell’orchestra incaricata di eseguire la mia colonna sonora. Poi sceglievo la scenografia, sceglievo luoghi diversi a seconda dei casi. Poi sceglievo gli attori, poteva trattarsi di cose inanimate così come di cose animate, uomini e donne compresi. In genere il primo acchito delle mie scelte era semplicemente dettato dalla necessità di staccare il cordone ombelicale che mi legava al mio mondo d’origine ed iniziare a conoscerne altri. Credo che si trattasse di un’innocente e necessaria curiosità indagativa. A volte era solo stanchezza o qualcosa di simile ad una sorta di romanticismo latente.

 

Quel giorno era il turno delle cose animate e del romanticismo. Quel giorno era il turno della mia Croce d’Oro4, uno strumento del secolo scorso in grado di avere più voci. Moltissime voci, ognuna decisa dalla personale linea di interpretazione che volevo seguire. La scenografia era una distaccata passeggiata tra alberi, siepi e selciati. Con il cane, nel pomeriggio. Un pomeriggio davvero perfetto, domenicale.

 

Avevo iniziato a studiare la silenziosa presenza di un sacco di animaletti. Leggeri, graziosi, piccoli, piccoli animaletti con fare gentile. Ero piccolo anch’io, seduto in un angolo di mondo insieme a loro, con il cane in attesa di un qualsiasi ordine al disordine. Fumavo, in una condizione di quasi equilibrata convivenza. La mia attenzione fu presto catturata dalla presenza di una bigia5 nascosta dentro la siepe. Non si era accorta di me e stava appoggiata tra i rami a guardare il suo pomeriggio. Ogni tanto sceglieva un altro ramo. Distratta e disimpegnata. Anarchica… Anarchicamente disimpegnata. Eravamo la stessa persona, avevamo le stesse intenzioni ed eravamo animati dalla stessa anarchia. Anch’io ero lì ad osservare il mio pomeriggio, immerso in un velo di goduto romanticismo. Perso tra meravigliose e silenziose cose animate, assolutamente convinto della loro innocente bellezza.

 

Improvvisamente, un colpo di cartuccia dall’altra parte della siepe interruppe ogni mia personale e sentita dissertazione sulla bellezza delle cose. La sfortunata bigia fu raccolta da un cane e prontamente “riportata” a chi ne aveva rivendicato il possesso…

 

Ecco come finisce la bellezza: tra le mani di chi non ha capito. Sempre. 

 

(…) A volte si muore anche se non si vuole. Succede un po’ a tutti... (…)

 

Cap. VIII Il compromesso scaturisce sempre storto nel serrato dialogo di guerra

 

Dato un esagono semplice inscritto in una conica

cioè avente i vertici appartenenti alla conica

i lati opposti di esso si tagliano in tre punti di una stessa retta

 

Era un periodo davvero non facile. Nonostante ogni mia sincera e propositiva disponibilità di autoanalisi non riuscivo davvero a ritenermi complice di questa brutta situazione. Pensavo di essere onesto, anche con me stesso. Nemmeno più mi lamentavo nell’osservare ogni giorno come andavano le cose. Aumentava infatti in maniera esponenziale la presenza di stronzi che salutavano felici quelli a cui leccavano il culo e con odio tutti gli altri, sempre più impegnati ad occupare gli spazi di tutti. Non era una difficile osservazione. Così come del resto non era difficile osservare che si trattava della storia dell’uomo e di conseguenza evitare di farsi ulteriori domande. Ma non è sempre facile, soprattutto quando il tuo “valore di giustizia” sovrasta ogni tua innocente e legittima necessità stessa di “giustizia”. Ci rimetti quasi sempre… In questi casi di solito a farne le spese sono sempre i sognatori e gli idealisti, ma quella volta ci ho rimesso anche io. Perché anche io, come tutti i sognatori e gli idealisti, amavo così tanto alcune cose da non riuscire a vederle sotto altri punti di vista.

 

Io mi ero ritagliato un mio personale spazio vitale. Me lo ero costruito a misura e andava davvero “molto bene”. In equilibrio, un quasi naturale equilibrio. Ma si trattava, proprio come in natura, di una condizione di equilibrio apparente. Perché l’equilibrio non è una condizione statica e immobile; continua ad essere in movimento, con piccoli e quasi impercettibili spostamenti verso qualsiasi direzione. Spostamenti che vengono sempre prontamente riassorbiti dal sistema se rimangono all’interno dello spazio che forma il sistema stesso. Quando invece escono da questo spazio, l’equilibrio è perduto. Ecco perché ho cominciato a faticare… perché nessuno spazio in equilibrio è davvero libero. Maledetta “struttura definita da un insieme di relazioni spaziali tra oggetti“, la sua stessa esistenza dipende dalle sue interazioni con altri spazi. Semplice: … se volevo un mio equilibrio personale era necessario relazionarlo con quello degli altri. Dovevo capirlo meglio, così come dovevo capire che il vero trucco della vita non è altro che evitare che le relazioni che legano il tuo spazio a quello degli altri non degenerino mai nella dipendenza. Perché quando c’è la dipendenza lo spazio maggiore si prende sempre quello minore, soprattutto se è forte, violento e guidato soltanto dalla sua stessa arroganza.

 

(…) Le cose cominciano ad andare male quando contengono un po’ di ansia. E vanno anche peggio quando l’ansia si aggiunge a se stessa. In quell’esatto momento le sensazioni diventano odio. E l’odio non è mai costruttivo… (…)

 

Cap. IX Il domestico volo della cinciallegra e la diffusa “perdita del filo logico”

 

Vi avevo precedentemente messo a parte delle mie elucubrazioni

Però, nonostante i miei reiterati inviti alla tolleranza e alla autocritica il risultato è sconfortante

Pertanto, vieppiù deluso e amareggiato, ma non per questo scevro da colpe

 Vi invito ad intonare con me il canto propiziatorio, penitenziale, giaculatorio e di speranza che fa … li belli gladioli

 

Le cince sono animali cordiali, molto cordiali, quasi domestiche. Prima di ogni altra cosa mettono sempre avanti la fiducia nel prossimo. Mai bugiarde, mai false come quelli che subdolamente provano ad imitarne il volo e le docili movenze con il chiaro obiettivo di avvicinarsi al nemico e poi colpire. Io avevo imparato a distinguere bene le due cose. Ovviamente preferivo le cince ma non è sufficiente. Anche io, ad esempio, avevo le mie grandi debolezze. Nel mio passato di “fanciullo cacciatore” ricordo che il primo sparo che ebbe una nota di merito tra i “vecchi”, fu proprio l’abbattimento di una Cinciallegra6. Gentile, curiosa e distratta. Era molto tempo fa e non avevo ancora imparato ad avere un’anima diversa da quella che vogliono darti i tuoi padri. Non potevo capire, non mi era stato ancora permesso di provare a capire... oggi forse ho un’anima mia e non voglio nemmeno pensare che non sia così, vorrei solo chiedere scusa, ma non è sufficiente…

 

La gente aveva cominciato a dare inequivocabili segni di sbandamento, prima apparente poi quasi evidente. Anche quelli che avevano ancora un barlume di luce negli occhi si erano quasi spenti nella loro stessa ombra: … Autoesiliati. Ma nel loro caso ero convinto che si sarebbero presto uniti alla guerra se qualcuno avesse ridato loro entusiasmo e fucili. Per molti altri invece non era così; almeno così mi sembrava. C’era infatti in giro un sacco di gente che aveva perso il filo del discorso. Succedeva anche a me, ma io pensavo fosse solo un problema di lettura: … ho letto male le pagine precedenti, devo rileggerle, altrimenti diventa difficile andare avanti. Mi sembrava semplice, quantomeno efficace per risolvere il problema della “perdita del filo logico del discorso”. Invece per molti altri non era così. Molti infatti pensavano che non serviva rileggere proprio niente, serviva solo arrivare alla fine del racconto: … Arrivisti. Poi c’erano anche quelli che non curanti di risolvere il problema della “perdita del filo logico del discorso” perdevano un sacco di tempo a meditare sul senso stesso della “perdita del filo logico del discorso”: … Meditandi. Meditavano molto. Era diventata quasi una moda: meditavano sulla perdita della logica di un buon stile di vita, sulla perdita della logica dell’approccio tra noi stessi e l’universo, sulla necessità di una nuova e più logica “etologia religiosa”, sull’illogico-logica presenza intorno a noi di curiose presenze spirituali come elfi, gnomi, orchi e funghi magici. Meditavano nuovi sistemi di meditazione quando si era perso il filo logico della meditazione stessa.

 

A mio avviso si meditava davvero un po’ troppo, soprattutto in considerazione del fatto che molti se ne stavano approfittando: … Subdoli. Subdolamente diretti in direzione opposta. Erano così subdoli che il loro vero obiettivo era mantenere la diffusa “perdita del filo logico del discorso”: avevano infatti capito che questa cosa avrebbe tenuto occupata e distante un sacco di gente, permettendogli di conferire “la loro logica finale” al filo logico delle cose. Poi c’erano i Distratti, ai quali non importava niente di niente e proseguivano a dipingere il loro pezzo di tela, senza preoccuparsi di dover eventualmente cedere spazio in caso di “necessità”. Sapevano infatti che in ogni caso avrebbero presto ricevuto un nuovo e più piccolo pezzettino di tela su cui dipingere ancora la stessa cosa di prima. Un po’ più piccola.

 

Poi c’erano altre Categorie e io, sinceramente, non so dire a quale di queste appartenevo…

 

(…) Ho sempre amato le anatre. Le anatre sanno scodinzolare come fanno i cani. Peccato che non sappiano abbaiare… (…)

 

Cap. X La storia non comune di molti piccoli animaletti

 

Sono contento di non aver dato alcun seguito a quel peccato di volerti un giorno mangiare

 

Un oggetto non è mai davvero smarrito fino al giorno in cui te ne accorgi. Molte volte ad esempio si ritrovano oggetti che nemmeno si sapeva di avere smarrito. Erano persi? Sono sempre stati nello stesso identico posto dove li avevamo dimenticati? Oppure erano distrattamente scivolati in qualche angolo dietro al divano?

 

Fu proprio in quei in quei giorni di forsennate analisi organizzative che la perdita della mia Croce d’Oro diventò il più triste presagio di sconfitta che potessi trovare tra le pieghe disordinate delle mie elucubrazioni belliche. Perché proprio lei? Perché tra tutti i miei “ferri da guerra” se ne andò perduto proprio quello più fidato? Era una semplice pipa, come tutte le altre che sempre usavo per “dichiarare guerra” al pensiero. Ma purtroppo quel cattivo presagio passò quasi inosservato...

 

Io ero così abituato a fare quello che facevo, che quasi non mi serviva più nemmeno il cervello. Si trattava di automatismi, azioni consolidate che per essere svolte non richiedevano l’uso di nessun tipo di cervello. Non è un problema, almeno non fino a quando il cervello ti serve di nuovo. In questo caso può anche accadere che lo ritrovi subito senza troppa fatica e ricominci ad usarlo senza nessun problema di sorta, come se fosse un qualsiasi oggetto ritrovato per caso e che nemmeno sapevi di avere perduto, occorre solo lasciargli il tempo di rioliare gli ingranaggi di base ma nel complesso riprende a funzionare dallo stesso punto in cui lo avevi abbandonato. Molto diversa è invece la situazione in cui la consapevolezza di averlo perduto supera la necessità di ritrovarlo immediatamente. In questo caso la situazione può anche degenerare nel panico, soprattutto quando il bisogno di avere un cervello, in quell’esatto momento, ti arriva da una perentoria richiesta esterna, da qualcuno che ti chiede se hai ancora un cervello utilizzabile e, soprattutto, da utilizzare immediatamente. È in questo caso che le cose possono davvero degenerare: oltre alla paura di non sapere quanto olio ti servirà per rimetterlo in moto, infatti, subentra il panico del non sapere nemmeno dove lo hai abbandonato. In questi casi il panico spesso supera ogni altra e più costruttiva sensazione. Diventa così forte da impedirti anche il normale esercizio di ripercorrere per filo e per segno le ultime azioni conosciute, dall’ultimo momento in cui ricordi di avere avuto un cervello…

 

(…) Quando sei abituato a non pensare alle cose che fai o sei uno senza cervello, oppure l’attitudine stessa al pensiero è stata così ben allenata da diventare un dettaglio. Nel primo caso, significa che stai facendo l’ennesima inconsapevole schifezza, nel secondo caso, significa che la necessità di pensare è brillantemente superata dall’aver fatto la cosa giusta senza averci pensato. Se guardi da fuori le due cose puoi definirle entrambe “prive di cervello” ma il risultato non è certamente lo stesso, soprattutto se si è direttamente interessati al risultato dell’azione. (…)

 

Cap. XI         La complessa teoria dell’accensione del motore della Guzzi del mio amico Laccabue

 

La natura non vi chiede il permesso; non gliene importa niente dei vostri desideri e se vi piacciono o no le sue leggi

 

Si trattava di una semplice conclusione di discorso: … se non c’è stato nessun inverno allora non è nemmeno iniziata la primavera. Gli alberi avevano già messo i fiori e nessuno aveva ben chiaro cosa fosse successo in quello strano inverno. Molti pensavano semplicemente che un inverno caldo era meglio di un inverno freddo. Altri non pensavano niente. Il 3 marzo c’era stata persino un’eclissi di luna, ma non servì neanche questo. Molti non si mossero di un solo centimetro. Fosse accaduto in un’altra epoca, questo concomitare di eventi non sarebbe certo passato inosservato. Qualcuno avrebbe addirittura scritto migliaia di pagine sulla fine o sull’inizio del millennio; altri avrebbero dato a quella luna rossa un chiaro significato di avvertimento; altri avrebbero parlato del Presagio; altri avrebbero acceso “nuovi roghi”; altri ancora avrebbero scritto un sacco di cose sulle congiunzioni matematiche del tempo o sull’allineamento ciclico dei pianeti o sulla fine del mondo conosciuto. Invece quel 3 marzo nulla. La gente non ci aveva quasi badato. Ma forse era meglio così…

 

Comunque la primavera era davvero cominciata, già da qualche settimana, quasi due mesi prima del suo calendario ufficiale. Gli insetti avevano già completato le loro faccende da post risveglio e gli alberi erano già pronti alla nuova stagione, prima ancora di aver “buttato” le foglie. Io non sapevo quale fosse il vero significato di tutto questo ma mi piaceva osservare la gente comportarsi esattamente come gli alberi e gli insetti.

 

Prima che le mie ipotesi di guerra prendessero il sopravvento nei confronti di ogni altra possibilità alternativa, pensavo di ritirarmi dalla vita sociale per un po’ e di studiarne l’effetto. Non volevo combattere nessuna guerra, volevo solo studiare alcune cose. Tutto andò bene finché non mi accorsi che anche io stavo diventando come le cose che stavo studiando. Potevo reagire a questa cosa in qualsiasi modo, ma mi sono limitato a pensare che mi occorrevano ulteriori spunti di analisi. Dovevo continuare a studiare, molto di più. E così quello che doveva essere soltanto un lungo viaggio per osservare come cambiano le cose se non fai parte di esse, si è trasformato in un estremo e personale tentativo di cambiarle. E alla fine di tutto … sono passati dieci anni e non ho ancora capito niente. Se non che forse, siamo anche noi come gli alberi e gli insetti.

 

(…) Per molti di loro io sono il matto. Uno iettatore sociale, uno spostato dalla norma. E solo perché ho obiettivi diversi … solo perché quando la Guzzi non parte, dò semplicemente la colpa alla pressione atmosferica del luogo esatto in cui mi trovo… (…)

 

Cap. XII L’ingiusta condanna senza processo del mulo

 

Il compito di organizzare e indottrinare gli altri cadde naturalmente sui maiali,

ritenuti per comune consenso gli animali più intelligenti.

 

Immagina di essere davanti alla morte. Stanno pronunciando la tua condanna finale. Nonostante ogni tuo tentativo di dichiararti innocente sei stato giudicato colpevole, nonostante la chiara malafede di tutta la corte di giustizia. Venduti! Quale parola diresti come tuo atto finale? Un insulto? Un “vaffanculo”? Un “… siete tutti dei bastardi”? Qualcosa di più apocalittico tipo “…io sarò più forte da morto che da vivo”? Cosa diresti? Daresti la colpa al porco? Una cosa è certa: nessuno di noi si asterrebbe da una qualsiasi forma di insulto. Compreso il mulo che in genere resta sempre in silenzio.

 

Io avevo pronunciato l’insulto “esatto”: una sorta di formula magica che ti sveglia dal tuo letargo; l’esatto comando vocale che riesce ad inceppare la ghigliottina … per tre volte. Una perfetta combinazione di suono e parole, un’urlata replica finale. Improvvisamente, il mio tribunale mentale si era dissolto in un niente: una bestemmia e poi più niente. Nemmeno la conferma del giudizio. Era stato un incubo, un atroce incubo, e il mio risveglio sudato conteneva il chiaro avvertimento che le cose che stavamo tramando non mi avrebbero garantito la grazia a priori. Inoltre, in quei giorni, le prime avvisaglie di sconfitta si avvertirono chiaramente. Mi ero infatti trovato nella stessa stazione con uno di loro, era vestito ovviamente bene, impeccabilmente, eravamo sullo stesso vagone e nonostante la mia ben riuscita indifferenza, quel ghigno malefico non mi suggeriva per niente un evolversi positivo degli eventi. Poteva infatti trattarsi di disprezzo o forse di abituale “aristocratica spocchia”, ma qualcosa sembrava davvero diverso quel giorno, non era autoconvinzione quel ghigno, era certezza … e io avrei dovuto capirlo e lasciar perdere tutto.

 

(…) Nella mia scala di valori preferisco omettere le condizioni sociali. Perché mi danno fastidio. Non mi va di sostenere che sia meglio la condizione del Mulo o quella del Porco. Questa distinzione contiene infatti l’implicita ammissione che il “Fattore”è posto legittimamente un gradino più in alto. Se devo analizzare la questione del Mulo e del Porco, non posso escludere il ruolo del “Fattore”. È un fattore imprescindibile. Perché una volta “risolta” questa prima necessità, l’analisi può proseguire molto semplice: tralasciando che solitamente cambiando l’ordine dei “Fattori” il risultato non cambia, sta meglio il Mulo che ha capito da che parte si trova la discesa e sta meglio il Porco che ha capito come aprire il cancello della porcilaia... (…)

 

Cap. XIII La fragile ruota del carro che procede sul greto morto del fiume

 

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua,

la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta

 

Siamo sempre stati servi: il Papa, Venezia, Napoleone, il ferro, la società elettrica, il cemento, la comunicazione di massa, l’ignoranza... Solita storia: … ogni volta una faccia diversa ma sempre lo stesso padrone. Io non ho mai ben capito perché sentiamo così tanto il bisogno di avere un padrone. Forse soltanto perché siamo timidi, forse abbiamo paura di fare da soli, forse abbiamo solo paura di prenderci la responsabilità di ammettere che abbiamo scelto la strada sbagliata. Ma il problema del padrone non è un vero problema. Se tra i padroni ci fosse stato qualche grande Maestro a cui sottomettere la nostra naturale timidezza, lo avrei fatto anche io, davvero, senza troppi problemi. Ma dov’erano i grandi Maestri di cui sentivo il bisogno? I miei grandi Maestri sono sempre stati quelli che si sono battuti contro il “padrone”, compresi quelli che hanno perso, quasi tutti; quelli che hanno vinto, invece si sono troppe volte preoccupati di diventare i nuovi padroni, quasi con la stessa fretta con cui hanno cercato di togliere di mezzo quelli vecchi.

 

I giorni che seguirono a quel funesto incontro metropolitano furono davvero concitati. Quel vestito e quel ghigno, così assolutamente superiori, erano stati l’ultimo segnale d’allarme. Serviva mettere tutti gli “Animaletti” sul carro ed affrontare il sentiero di guerra. Non eravamo preparati fino in fondo, ma per quello che potevamo eravamo abbastanza preparati. Loro stavano tramando qualcosa di nuovo, dovevamo agire. Un’ulteriore trama ostile alla nostra condizione avrebbe comunque “traboccato il vaso”.

 

La strategia di attacco che avevamo scelto apparteneva alle più consolidate tecniche di guerra: aprire un varco tra le mura nemiche con un perentorio attacco esterno; questo li avrebbe sorpresi e occupati per il tempo che serviva a noi per completare le mappe del castello e consegnarle alle seconde linee. Il resto avrebbe dovuto venire da sé, quasi come una naturale conseguenza. Il nostro ruolo si sarebbe limitato a questo. Il resto avrebbero dovuto farlo gli altri. Noi avremmo comunque garantito il nostro ulteriore supporto se ce l’avessero chiesto. Questo era il nostro disegno. Ma purtroppo non avevamo calcolato che il nostro carro non dava grandi garanzie di fiducia. Sembrava infatti un vecchio carro di legno che procedeva a fatica sul letto dell’ennesimo fiume già morto. Ogni sasso che si metteva tra la strada e la ruota lo faceva sobbalzare e non rare volte cadeva qualcosa per terra. Forse “vestirlo” un po’ meglio sarebbe bastato ad incoraggiare i nostri alleati, ma il vero problema era soltanto uno: … se credevano davvero alla causa, il “vestito del carro” non avrebbe diminuito entusiasmo e passione di fronte allo scontro.

 

(…) Io non credo che sia necessario “imparare”. Credo però che sia necessario che “occorra imparare”. Semplice no? (…)

 

Cap. XIV Il vaso delle viole sopra un davanzale suscita quasi sempre dei buoni sentimenti

 

... e fate bene a protestare

 

Qualche volta cadeva un po’ di neve. Sempre più raramente, ma se ne accorgevano soprattutto quelli che le davano ancora un significato naturale. La neve nascondeva ogni rumore. Improvvisamente ogni cosa diventava silenziosa. Anche la ferriera, anche la strada. Tutto diventava una grossa bolla di vetro, chiusa. I rumori restavano fuori, arrivavano soltanto alcuni confusi suoni, ancora riconoscibili ma finalmente innocui.

 

Quella volta invece: … niente neve. Così il rumore era diventato ancora più forte. Insopportabile. Cercavo di non pensarci, ma non era sufficiente. Provavo a pensare a tutte le più belle cose, ma non era sufficiente neanche questo. Perché ogni volta che ci provavo, immediatamente sentivo una fastidiosa sensazione di “minaccia del cambiamento”. Dovevo riorganizzare la mia unità di misura, era diventata una questione importante. Provai ad inventarmi un piccolo esercizio: ogni volta che osservavo qualcosa che doveva essere cambiata, nonostante la mia opinione contraria, provavo ad immaginarmi nella testa di quelli che la volevano cambiare. L’esercizio non servì proprio a niente. Infatti, lo stesso esercizio mi portava immediatamente ad immaginarmi in quella stessa cosa, e ogni volta la risposta era una sola: … perché vi occupate di me se non vi ho chiesto nulla!? Così, alla fine di tutta questa pantomima, ritornavo sempre alla mia realtà delle cose… sempre un poco più cattivo di prima.

 

Era comunque una situazione difficile e loro avrebbero quantomeno dovuto capire che la nostra intenzione era mossa da legittime e concrete necessità. Del resto avrebbero anche loro potuto provare a fare il mio stesso esercizio. Ma non fu così, non è stato come osservare il vaso di fiori ben curato e messo sopra il davanzale, che lo puoi guardare dall’interno della stanza o dal marciapiede, e provare sensazioni diverse ma in genere comunque serene… è stato come guardare il vaso di fiori dal marciapiede mentre dentro la stanza qualcuno sta ballando con la tua fidanzata. Ecco di cosa ci hanno accusato: di ballare con la persona sbagliata…

 

(…) Ho solo ricordi confusi di mia madre. Ero seduto sul tavolo della cucina e lei mi stava sistemando il grembiulino nero per la scuola. Ricordo le sue mani e la sua faccia. Ricordo che stavo applicando i miei primi rudimenti di grammatica e lessi, con l’accento sbagliato, la marca del caffé: Su-er-te. Mi diede un bacio e sorrise. Nessuno dei due conosceva il significato di quella parola ma eravamo felici lo stesso… (…)

 

Cap. XV Le difficili idee alternative di un “germano irreale” tra i germani reali

 

Avrei dovuto sparare io a quel cane. Non avrei dovuto lasciate che un terzo gli sparasse…

 

Me ne sarei comunque andato all’inizio di giugno. Incompatibilità. Ero incompatibile. Sapevo anche che l’attacco finale avrebbe ulteriormente confermato questa mia incompatibilità di fondo. Inoltre non mi è mai andato di prendere le cose troppo seriamente, soprattutto quando dopo la serietà della “genesi” subentra quel senso di “seriosità della continuità”. Dopo la grande battaglia finale quindi me ne sarei andato, anche in caso di vittoria. Era davvero così. In un certo senso si trattava della mia congenita necessità di disordine, o forse ero solo un po’ stanco. Ero in ogni caso assolutamente consapevole che comunque fossero andate le cose nessuno mi avrebbe mai chiesto di proporre “la mia idea alternativa”. In quegli anni, infatti, chiunque ne aveva una migliore della mia, anche quelli che mai si sarebbero sognati di combattere per cambiare l’idea alternativa corrente. Per loro occorreva solo che qualcuno uscisse sul campo di battaglia per buttare definitivamente nel fosso quella schifezza. Ecco cosa occorreva, niente altro: liberare il campo a tutte le “idee alternative” tenute nascoste fino a quel momento… sperando che alla fine sarebbe stata scelta l’idea migliore...

 

Per me la “vittoria” non avrebbe significato “conquista”, non mi interessava distruggere per poi prendere il posto di chi aveva distrutto prima di me, mi interessava soltanto fermarli. Sarebbe bastato ad aprire gli occhi di tanti, sufficiente a cambiare qualcosa. Era solo un inizio, ma per me poteva bastare. Andare oltre avrebbe potuto compromettere i miei ideali, e questo non era quello che volevo. Io volevo solo colpire, colpire per fare del male era il mio solo obiettivo... il resto non mi interessava. Qualcuno avrebbe riconosciuto nella mia fuga la scelta giusta, avrebbe pensato che nella mia bilancia delle cose, nuove cose meritavano maggiori attenzioni. Qualcuno mi avrebbe anche augurato “buona fortuna”, poi tutti avrebbero dimenticano presto. Molti di loro infatti non avevano mai nascosto il desiderio di darmi un “calcio nel culo”, soprattutto quelli che con gli “occhi aperti” avrebbero dovuto ammettere che avevo ragione. Evitargli anche solo l’onere di alzare il piede era un’occasione d’oro...

 

(…) Ogni volta che immagino come avrebbero dovuto finire le cose mi ritrovo davanti le stesse cose di prima. Quei maledetti sono riusciti così bene a riempire di pensatori lo spazio destinato al pensiero che alla fine non serviva nemmeno più pensare. Anche i pensatori più combattivi avevano pensato che smettere di pensare era l’unico pensiero importante. Il cerchio si era chiuso, e dentro a quel recinto chiuso ci stavo anch’io… (…)

 

Cap. XVI Una “nuova città” non significa necessariamente che sia diversa da quella vecchia

 

Quando sono arrivati i predicatori loro avevano la bibbia e noi la terra. Oggi noi abbiamo la bibbia e loro la terra

 

Quel Palazzo di porci! Li ho sempre odiati. In fondo in fondo li ho sempre odiati. Anche quando ritenevo che le cose andavano come dovevano andare, non li sopportavo. Erano inutili, proprio come le scoregge nella bufera. Eppure avevano costruito ogni cosa così bene che qualsiasi azione esterna che interferiva con il loro proseguire contribuiva semplicemente all’inerzia del loro andare. Tutto qui... ogni azione esterna, ancorché di disturbo, si traduceva semplicemente in movimento, un movimento nient’altro che “necessario”. Sapevano infatti di essere enormi e sapevano anche che degli “innocui disturbi esterni” non avrebbero certo interferito con la loro direzione, anzi, avrebbero contribuito all’alimentazione del loro movimento. Era un grosso risparmio, soprattutto per un’enorme baracca travestita da “palazzo” che per funzionare aveva sempre più bisogno di maggiori quantità di carburante. Era proprio così.

 

Io alla fine di tutto sarei andato al nord. Avevo scelto un posto dove il clima era molto più simile a me. Dove la mia naturale tendenza a vivere nel caos era assolutamente ben bilanciata dalla rigidità del clima. Dove nessuno in ogni caso mi avrebbe mai chiesto cos’era successo. Così ero abbastanza tranquillo. La mia direzione era già calcolata, quasi ovvia. Torba e laghi, silenzio ben distribuito, nessuno che ha voglia di fare domande inutili. Una terra che avevo idealizzato, come faccio per tutte le cose di cui mi innamoro. Per tornare mi sarebbe bastato il tempo di ritrovare un po’ di nostalgia per i miei luoghi d’origine, gli stessi che solo da lontano sarebbero sembrati più vicini di quello che invece stavano diventando.

 

(…) Siamo formati da un’infinita serie di piccoli difetti. E non è un problema, sempre che rimangano tali... (…)

 

Cap. XVII Quando si dice “è arrivato il momento di agire”

 

… giù la testa, coglione

 

Era arrivato il momento di agire. Le “bombe” erano state piazzate nei giorni precedenti, proprio nei punti studiati al dettaglio. Nonostante il dubbio sul risultato finale ero eccitato come un bambino davanti al carro di Babbo Natale. Avevamo messo delle piccole cariche davanti al “palazzo”, alcune lungo il vialone d’ingresso e la “meglio fornita” sul cornicione più alto. Caricate a ventaglio, un micidiale “ventaglio di fuoco”. Un diverso concetto di “fuochi d’artificio”. I miei compari avevano ognuno un proprio ed esclusivo compito che fu eseguito alla perfezione. Rimaneva soltanto la detonazione e la scelta della migliore zona di rifugio prima dell’assalto finale. Non prima di avere il tempo di restare a guardare per qualche istante quelle facce riempite di “merda”, incredule e incapaci davanti a quella “pioggia di fuoco”, inconsapevoli di quello che stava accadendo…

 

Era un piano ben congegnato, studiato per fare del male quanto bastava. I “malcapitati” avrebbero potuto intendere che si trattava di un’isolata e disperata azione di guerriglia, ma molti avrebbero certo capito che era l’inizio della guerra. Invece non è successo proprio niente: nessuna detonazione e nessuna goduta attesa prima dell’attacco decisivo. Come spesso accade nei sogni, infatti, qualcuno ti viene a svegliare nel momento più importante. E ti ritrovi da solo, come quando ti svegli da un incubo, sperando che avanzi del tempo per riuscire a riaddormentarti e non ricordare più niente al risveglio. In caso contrario non ti resta che alzarti per andare a pisciare e sperare che basti un caffé per svegliarti davvero.

 

(…) Non mi fido di chi non beve caffé. Non è fisiologicamente concepibile … (…)

 

 

 

Cap. XVIII L’ottimistica ideologia del ratto

 

È da tempo noto che la grafiosi dell'olmo sta dilagando in modo devastante nel territorio italico.

 

La nostra “Grande impresa” si era trasformata in un completo disastro. Una vera e propria disfatta: eravamo caduti nel fiume! Ma non erano stati i cannoni di guardia del “palazzo” ad “affondarci”. Si era trattato di un’avventata manovra di navigazione durante l’avvicinamento decisivo. Nel tentativo di tenere il passo di quell’irraggiungibile corazzata, la nostra già malridotta chiatta di legni vecchi aveva sbattuto contro qualcosa di enorme: un sasso, un tronco di platano incastrato tra gli argini, il “cadavere” di qualche precedente sfortunato relitto; una di queste cose, o forse un maledetto cedimento strutturale. Forse avevamo calcolato male la profondità di quel canale.

 

Andammo a fondo come fanno gli ubriachi alla festa del santo. Era proprio il fondo…

 

Noi siamo abituati a stare in fondo, facciamo la vita del ratto. Anche quando stiamo in alto, stiamo nella parte di fondo che sta in alto. Quando siamo in basso, siamo davvero in basso. Credo che sia una nostra precisa connotazione etologica: … stiamo in fondo perché abbiamo imparato che solo dal fondo si può risalire; oppure perchè forse, in fondo in fondo, ci piace. Chi può dirlo? La vita dei ratti comunque può sembrare molto semplice ma ti assicuro che non lo è, ci sono intere pagine di grandi libri che raccontano La filosofia del topo e non tutte arrivano alle stesse conclusioni. Vuol dire che è un argomento da non sottovalutare, mai…

 

(…) Quando la barca affonda il topo sa che riuscirà a galleggiare comunque. L’importante e che la riva non sia troppo distante… (…)

 

Cap. XIX L’altra faccia della sfortuna non sempre si chiama fortuna

 

It could work!!

 

Non ci fu nessuna esplosione. Le nostre “bombe” erano state scoperte e disinnescate già il giorno prima, e ad aspettarci c’erano solo i soldati, pronti ad arrestarci, pronti a completare con la fucilazione il nostro più completo fallimento. Ma il nostro naufragio, con tutti i suoi lati negativi, rovinò la loro “festa”. Quei “servi gendarmi” restarono infatti ad aspettare con i fucili spiegati fino a quando non fu ritrovato il cadavere del nostro carro ormai abbandonato. Noi ci eravamo già dileguati in ogni angolo di quella città, in cerca di un rifugio sicuro e del più completo anonimato. Non so quale sia stata la sorte dei miei compari perché ognuno di noi si dileguò per la sua strada. Posso solo dirti che in tutta quella “sfortuna” il nostro naufragio fù un episodio davvero fortunato…

 

Il crollo repentino degli eventi ci obbligò al più completo silenzio, alla fuga, al più profondo esilio. Per paura di essere scoperti evitammo ogni tipo di contatto. Per sempre.

 

Mi spiace solo di non essere riuscito nemmeno a disturbare un pochino la fastidiosa presunzione di quei bastardi. Ad esempio mi sarebbe bastato anche solo riuscire a lanciargli sopra un po’ di “guano” prima del nostro “comunque dovuto” linciaggio finale. Oppure mi sarebbe anche solo bastato rubargli le bottiglie e i prosciutti tenuti da parte per la festa, oppure le fidanzate, oppure dar fuoco alla loro impenetrabile baracca. Qualcosa di “fastidioso” comunque mi sarebbe bastato... Niente di tutto questo: il nostro disegno era incompleto e qualcosa non aveva funzionato; abbiamo fatto tutta questa fatica per niente...

 

(…) Provo una certa soddisfazione nel pensare che la nostra disorganizzazione rovinò anche i loro piani. Non mi levo dalla testa l’immagine delusa di quelle facce altrettanto deluse di fronte alla nostra manifesta impreparazione. Sembra quasi che abbiamo affondato il carro di proposito. Sembra proprio così... (…)

 

Cap. XX Le nostre personali teorie sull’inizio e sulla fine delle cose

 

… comprendete ora che i guai e disagi ci sono ripagati non solo dai risultati scientifici,

ma anche da qualcosa di molto, molto più grande?

 

(…) Proprio così. Ecco… dentro a tutti i nostri propositi di guerra le cose sono andate proprio così. Nonostante tutte le nostre fondate ipotesi di vittoria, abbiamo perso. Prima ancora di iniziare. Prima ancora di accendere il cannone. Che brutta situazione! Che brutta sensazione! Partita persa senza essere stata giocata! La sensazione peggiore che si possa provare. Proprio così. Quasi come il ragazzo che si trova davanti alla sua prima occasione di “entrare”, siamo venuti e subito andati. Pronti a riprenderci ma ormai compromessi. (…)

 

Loro avevano lasciato che piazzassimo con cura tutto quel prezioso carico di “esplosivo” per poi aspettarci a cannoni spiegati mentre imboccavamo arditamente la “via maestra” con il nostro “carretto da fiera”. Pronti a ricordarci che eravamo “fuori strada”, pronti a ricordarci che sapevano già tutto, orgogliosi e presuntuosi, sicuri... Informati da uno dei nostri, un infame qualsiasi che certamente oggi sarà diventato uno di loro… ancora più di prima. Quando si accorsero che tutto si era rivelato un vero fiasco non sprecarono nemmeno il tempo per venirci a cercare. Lasciandoci quasi senza niente, nemmeno senza la “condanna finale”. Come a ricordarci che l’assenza di giudizio era la condanna meritata, consapevoli che l’esilio vale quasi come una  condanna a morte, soprattutto se si tratta di esilio da consumare in solitario e assoluto silenzio.

 

Capisci?… Alla fine di tutto, fu la consapevolezza della sconfitta la cosa peggiore. Io e gli altri “piccoli animaletti” non ci siamo ancora del tutto arresi ma di fatto è stata una resa senza condizioni. È stata una scelta difficile ma anche la scelta più logica: … scegliere niente se niente è la scelta migliore. Ma non è così semplice come può sembrare, è stato un boccone davvero amaro. Obbligati a ritornare nel fosso da cui siamo venuti e in cui siamo destinati a restare. Perchè se il fosso ci appartiene, è giusto che il fosso sia l’unico nostro destino.

 

Così sono di nuovo al punto di prima. L’inizio e la fine hanno la stessa identica forma: … la forma del mio divano. Sono passati dieci anni! Dieci lunghi anni, forse neanche un giorno… o più semplicemente solo il tempo che c’è voluto per spiegarti qualcosa. Del resto, se non hai perso il “filo logico di tutta questa complicata faccenda”, puoi anche pensare che niente è mai troppo diverso da come lo abbiamo lasciato, se non che nella maggior parte dei casi è spesso peggiorato … almeno dal mio punto di vista. Ma forse anche dal tuo… Perché ognuno di noi ha il suo “palazzo nemico”, sei d’accordo? Non importa… comunque la mia “non condanna” non ha avuto condizioni, ma nel giudizio finale ci ho messo anche del mio, quasi per ricordarmi che allo scadere di questi dieci anni servirà metterci qualcosa di meglio, magari qualcosa che ho trovato in questi anni di pensieri e di studi ulteriori. I miei compari, quelli buoni, saranno anche loro nel proprio angolo di divano a raccontare a qualcuno che cosa è successo. Anche loro penseranno che qualcosa è successo, ma non sapranno davvero che cosa. E alla fine di tutto, senza sapere se è successa la cosa giusta o quella sbagliata, ognuno di noi finirà il suo discorso con le stesse identiche “belliche parole”: … domani si ricomincia. Amico!

 

(...) Maggiori dettagli non credo che servano … (…)

 

Testo citato:

 

Cap. I                  The Rime of the Ancient Mariner (S. T. Coleridge)

Cap. II                                 Kill Bill (Q. Tarantino)

Cap. III                               Angel Heart (A. Parker)

Cap. IV                                Riders on the Storm (J. Morrison)

Cap. V                 Tropic of Camcer (H. Miller; trad. L. Bianciardi, G. Almanasi)

Cap. VI                                Patagonia express (L. Sepulveda; trad. I. Carmignani)

Cap. VII                              Il Signor G incontra un albero (G. Gaber, S. Luporini)

Cap. VIII             Teorema di Pascal (B Pascal)

Cap. IX                                Li belli gladioli (E. Bennato)

Cap. X                 Il merlo (P Ciampi)

Cap. XI                                Zapiski iz podpol´ja (F. M. Dostoevskij; trad. L. De nardis)

Cap. XII                              Animal farm (G. Orwell; trad. G. Bulla)

Cap. XIII             Laudes creaturarum (San Francesco d’Assisi)

Cap. XIV              Conitnuavano a chiamarlo trinità (E. Barboni)

Cap. XV                               Of mice and man (J. Steinbeck; trad. C. Pavese)

Cap. XVI              Custer Died For Your Sins: An Indian Manifesto (V. Deloria Jr; trad. A. Russo)

Cap. XVII            Giù la testa (L. Vincenzoni, S. Leone, S. Donati)

Cap. XVIII          Coleotteri scolitidi e grafiosi dell'olmo. Prove di controllo combinato (M. Faccoli)

Cap. XIX              Young Frankenstein (G. Wilder)

Cap. XX                               Er redete mit dem Vieh, den Vögeln und den Fischen (K. Lorenz; trad. L Schwart)

 

Note:

1. Marca danese di tabacchi

2. Artigianato della pipa

3. Hotel ristorante a Bowmore sull’isola di Islay in Scozia

4. Storica linea di produzione di Brebbia Pipe

5. Piccolo passeriforme della famiglia delle Silvie (Sylviidae; Capinera – Sylvia atricapilla)

6. Piccolo passeriforme della famiglia dei Paridi(Paridae; Cinciallegra - Parus major)

 

 

 

 

 

 

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