Ducoli’s web site © 2007 |
Prodotto da Alessandro Ducoli. Scritto e
arrangiato da Alessandro Ducoli e Mario Stivala (testi di Alessandro Ducoli).
Suonato dai Bartolino’s: Mirko Spreafico, Alessandra Cecala, Andrey Kutov,
Mario Stivala, Alessandro Ducoli. Registrato, mixato e masterizzato da
Valerio Gaffurini e Claudio Lancini all’XTR Studio (febbraio-marzo 2008).
Grafica di Armando Bolivar (illustrazioni © L’Aventurine - Parigi, 2001; foto
© Fabio Gamba - Phocus Agency). Grazie a Paolo “Crazy” Carnevale, Massimo
Piliego (Altri Suoni), Paolo Mazzucchelli, Lina Milani, Massimiliano Arvati e
Francesca Vischioni. (…) Ho sempre pensato che i pazzi
fossero tutti portoghesi. Invece ho scoperto che la follia non è un marchio
di bandiera ma una malattia che travalica confini di ogni genere. Ho passato
tre anni a inseguire il Ducoli per due motivi principali: mi deve ancora dei
soldi (e nemmeno pochi); devo capire se fà i dischi per avere una buona scusa
per non pagarmi. In tre anni l’ho visto due sole volte e sempre a Lisbona.
Sempre per consegnarmi la sua ultima “fatica discografica”. Ogni volta è
sempre di fretta. Ogni volta mi supplica di capirlo se a volte non è del
tutto chiaro in quello che dice e fa. Ogni volta senza parlare dei soldi che
gli ho prestato per comprarsi una barca che credo nemmeno abbia mai visto
nessun tipo di onda. Io penso di essere un gentiluomo e penso anche che tra
gentiluomini non occorra parlare di certe cose. Quindi non ne ho parlato.
Evidentemente lui non è il gentiluomo che vorrebbe sembrare. Comunque a parte questo mi ha lasciato
questa Artemisia Absinthium. Lo ha
registrato in inverno perché dice che un disco estivo viene meglio se lo
canti quando fa freddo. Dice che ci si mette più desiderio di caldo e alla
fine il caldo viene fuori davvero. Questa premessa da sola ha contribuito non
poco ad avvicinare questo disco alla pattumiera sotto il mio lavello. Le mie
recensioni varranno anche sempre di meno ma conservo ancora un po’ di
principio. Quindi ve ne parlerò quando risolverà le nostre vecchie questioni.
Per ora vi dico solo quello che mi ha scritto l’altro ieri quando è tornato
in Italia: “Ciao Max, ti piace
l’Artemisia!? È un disco da paura. Mi è costato un sacco di sacrifici ma
suona davvero come speravo. Le canzoni le ho scritte quasi tutte con Mario
per cui ci troverai un po’ meno delle solite cose che ripeto sempre quando
faccio da solo. A parte tutto, quando fai la recensione mandamela prima
perché vorrei essere sicuro che hai capito cosa dice questo disco. Non per
correggerti le recensioni ma semplicemente perché ho sempre paura di essere
frainteso. Dimenticavo … Credo che aspetterò ancora un po’ prima
di parlarvi di questa Artemisia. Sempre che nel frattempo non sia finita
sotto il lavello. Ciao. (Maximillian Dutchman.
Lisbona, 27 marzo 2008) |
Ducoli, Piccoli
animaletti (2010) Mojita Meridiana Artemisia Arti e mestieri L’armistizio Il secondo giorno di maggio Rosa del vento Testo: Ducoli Musica:
Stivala (22 agosto
2008) Piccola
creatura Animale
preparato a fuggire Piccola
sfumatura nera Disegno
preparato a viaggiare . Aiutami a
trovare il senso, penso Che sia
davvero necessario Dobbiamo
valutare meglio, ancora Prima che
decidano loro ogni volta . Piccola
creatura Animale che
ha imparato a capire Anima da non
controllare, mai Chiusa sempre
nel cortile Liberami la
catena, la pena Patisce tutta
la mia schiena Guardate come
siamo tristi alla sera Si spera che
ci porti via l'anarchia Togliete quelle mani
sporcate di niente Riempite della solita
unità di misura Ripeto la richiesta di
restare da solo Senza i vostri occhi
sulla nostra Malura Liberate la mia bella
creatura,lasciatela pura I miei 100 difetti Testo: Ducoli Musica:
Stivala (24 luglio
2008) Odio questa
noia Gioia
obbligatoria Mai è
necessaria Con la musica
nuova Odio la tua
bella storia Odio la mia
corta memoria Dimmi che
cosa ti aspetti Dai miei
cento difetti Odio fare
senza Riduce la
residua pazienza Mette il
cattivo umore Il difetto di
un cuore Passeri e passere che
assaggiano il vento … due gocce di acqua Volano e scendono a
toccare la terra … il pane e poi l'aria Solita cosa, la solita
storia Sempre uguale, quasi
abituale Ancora una volta, ancora
sempre Voglio che mi dici cos'è Una Silvia Testo: Ducoli Musica: Kutov (1 maggio
2008) ... lei e’
un'ala nell'aria Io qui che ti
guardo volare Anima in
fiore che s'offre all'amore Offre canzoni
al silenzio che tace ... lei si
sposta sul ramo Io non ti posso
toccare Anima in
fiore non soffre d'amore Offre canzoni
al silenzio che ascolta Cadono gocce dal cielo Adesso che piangono gli
alberi e il giorno Una nuova citta’ Testo: Ducoli Musica:
Stivala (6 giugno
2008) Dentro il
pomeriggio della tua citta’ Dentro le sue
sfumature e le sue scritte sui muri Sono stato un
viaggiatore soltanto a meta’ Sono stato un
uomo buono e non avuto paura Ero dentro
alla stazione quando il treno partiva Quando la mia
situazione non parlava o diceva C'erano le
luci accese, erano tutte cattive Mentre il
pomeriggio cambiava, poche le alternative Dentro il
pomeriggio di questa citta’ Passano
locomotive, vanno tutte di la’ Sono sempre
un viaggiatore meno della meta’ Sono
diventato cattivo, per la necessita’ Dentro il
pomeriggio di una nuova citta’ Cerco una
collocazione per la mia situazione Mentre faccio
finta di niente Non e’ mica
importante Passeggio
come tutta la gente ... Che arriva e
che va’ Sto solo provando a fare
le cose Che adesso mi vengono
meglio Le altre le ho lasciate
davvero da sole Erano un continuo
sbaglio Guardo la tua meraviglia
preziosa Ancora come fosse ieri Niente delle cose che
sono qui intorno Dicono che cosa eri Il Mulo Testo: Ducoli Musica:
Stivala (23 agosto
2008) Che belle
faccine bugiarde Mai che siano
davvero gentili Guai, farsi
capire vuol dire Si cambia
quasi tutto il gioco Che belle
caviglie, maniglie Belle
meraviglie di gambe e di sambe Guai, avere
ragione non serve Niente,
nemmeno un cuore Niente,
nemmeno il cuore Che brutte
faccine arroganti Mai che una
siano volta accoglienti Guai, nessuno
di noi puo’ capire Anche se ci
basta poco Che belle le
figlie del Giglio Guai, le
spoglia l'arsura di luglio Mai che siano
cedute all'amore Niente,
nemmeno un cuore Guardo ancora una volta
il cielo Studio la mia
alternativa di volo Guardo ancora una volta
il tuo culo Mi tocca di essere
sempre il tuo mulo Ancora una volta il tuo
mulo Cinciallegra Testo: Ducoli Musica:
Stivala (7 novembre
2008) Il solito
andare del tempo La solita
vita distante L'unica cosa
che adesso e’ ... Davvero
importante ... La stessa
misura del giorno Solita andata
e ritorno L'unica cosa
che adesso e’ ... Davvero
importante, e’ determinante Non mi
lasciare ancora da solo Non mi
lasciare ancora senza niente Il solito
soffio di vento Il tuo
perfetto momento L'unico senso
che sembra vero Io sono
sincero, lo dico davvero Non mi
lasciare ancora da solo Non mi
lasciare ancora senza niente L'unico
andare del tempo Tutta la vita
distante L'unica cosa
che sono, io Un animale
stanco, un animale pronto E tu mi lasci
ancora da solo E tu mi lasci
ancora senza niente Il Laccabue Testo: Ducoli Musica:
Stivala (11 novembre
2008) Un po' di
arancione e dopo il rosso E dopo il
marrone Tutti i
colori che diventano uno E diventano
zero ... Prima il nero
e dopo il grigio Mi serve
anche il giallo, per la coda del gallo L'asino e il
bue mi diventano due Diventano il
cielo turchino Diventano il
vino e il mattino E subito dopo
il mio cane Bianco e
nero, tutto grigio Io ti disegno
una tigre e un leopardo che guarda Coi denti di
cento serpenti Con le zampe
del ragno e della sua ragnatela Costruita
sull'angolo alto della mia ultima tela Il motore
della Guzzi batte la testa di tutti Sulla strada
di fango Si vedono i
riflessi del sole rotondo Non chiamarmi
“Il Tedesco”, Francesco Prestami
soltanto le tue Che sono
sicuramente meglio di tutte le mie Sono 'l Ma’t,
il Laccabue, l’era gia’ morto sto ga’t Piccoli animaletti Testo: Ducoli Musica: Ducoli (22 luglio
2008) Dopo un
pomeriggio di vento e di pioggia battente Un raggio di
sole tardivo ti illumina il viso Osservo due
lumache sul muro, il passare di un'ora e del tempo L'acqua torna
ad essere un fiume di prezioso silenzio Forse non ci
credo per niente che hanno vinto la guerra Che daranno
un'altra forma diversa a tutta la terra Che hanno
avuto per davvero la forza di fermare la pioggia Comandati
dalla stessa arroganza di due zampe da uomo Voglio
solamente pensare che non servono a niente Che mi basta
stare fermo e guardarti camminare tra i gelsi Mentre il
pomeriggio comincia a diventare un ricordo Il giorno
lascia il posto alla sera in un respiro piu’ corto Noi non siamo esseri
umani Imperfetti nelle solite
cose Siamo diavoli e difetti
normali Sensazioni e sentimenti,
siamo solo animali Noi non siamo gli esseri umani Siamo niente che non sia
piu’ importante Siamo solo le creature
animali Sensazioni e sentimenti,
davvero normali Niente di nuovo di
stupefacente Niente di niente,
nemmeno la gente Noi siamo niente che non
sia vivente Siamo niente di buono,
non siamo importanti E allora niente perdono,
non saremo mai santi Proprio niente di
niente, non ci sono innocenti Siamo niente di niente
ma non e’ sufficiente E allora niente di
niente, più’ niente di niente Un germano irreale Testo: Ducoli Musica: Ducoli (22 agosto
2008) Una bufera
d'amore Passano mille
stagioni Io sono
niente ma provo a cercare La mia
consequenzialita’ Ma i fiori
hanno facce migliori Di quelle che
il giorno regala alla mia Non danno
nessuna risposta Che dia una
misura minore alla tua In questo
disastro di aprile Mi sento un
germano irreale Finito
nell'acqua non so galleggiare Mi sento che
sto per finire Sul greto del
fiume la rosa canina Rivolge le
guance alla luce Un respiro di
vento trasforma le foglie Nell'attimo
della tua voce Una bufera
d'amore Lasciami qui
per volare Lascia le
onde del fiume cullare La piccola
mia ingenuita’ Dialogo di guerra Testo: Ducoli Musica:
Stivala (28 novembre
2004) Una infinita
riserva di idee, le mie Ancora
preziose, gelose di essere sempre lasciate seconde Lasciate un
istante a guardare le gocce cadere sul vetro Davanti ai
miei occhi che aspettano ancora in silenzio Una goccia, un'altra
ancora Sopra il filo della luce Sopra le rondini
appoggiate Sopra il bordo, osservo
e guardo Una goccia trattenuta La mia scorta personale Di minuscole riserve,
lacrime d'oro Lasciate andare Le vostre
schifose, arroganti menzogne Protetti da
sempre da qualche padrone Di ladri
assassini di gente che ha fame, ancora Una goccia di acqua e
sale Sono in fila per il
rumore Nove metalli a
galleggiare Il nostro veleno lo
porta il mare Una goccia che riempie
il vaso Aiuta il fiore a
respirare Sono la voce che può
gridare L'anima parla, mi parla
ancora (Ilaria Alpi.
Roma, 24 maggio 1961 – Mogadiscio, 20 marzo 1994) Sopra il davanzale Testo: Ducoli Musica:
Stivala (6 giugno
2008) Nel profumo
delle viole Riconosco il
tuo sapore dolce Io, sono
stato un giardiniere Conosco i
fiori Nel colore
della sera Riconosco il
tuo vestito chiaro Io, sono
stato anche un pittore Nel
chiaroscuro e nero Nel silenzio
della siepe Riconosco
ancora la tua voce Io, sono
stato un violinista Ti ho vista
sola Nel mio cuore
il sentimento Riconosce
ancora la tua forma Io, sono
stato un romanziere Non servono
parole Questa orchestra sta
finendo Mentre il mondo sta
iniziando adesso La promessa che vorrei
non e’ la stessa Ma va bene uguale, sai Che anni mi dai, con
quale nome vuoi Il carro Testo: Ducoli Musica:
Stivala (5 giugno
2008) Noi che
tiriamo il carro Non ci
stanchiamo mai Abbiamo la
schiena dura Dicono che
siamo eroi Noi abbiamo
fatto il callo Siamo dei
marinai Siamo la
parte sana Siamo davanti
ai buoi Noi che
tiriamo il carro Non ci
fermiamo mai Abbiamo la
testa dura Dicono che
siamo noi Noi siamo
quelli buoni Noi siamo
quelli giusti Siamo la
parte scelta Noi non
diciamo basta Noi che
tiriamo il carro Non ci
opponiamo mai Abbiamo le
mani forti Meglio di
cento buoi Noi non
vogliamo niente Noi non
abbiamo sete Siamo la
parte pronta Davanti c'e’
solo il prete Passa e poi ritorna ... lei passa e ritorna da noi Mentre lei ci sventola
mille bandiere Proprio lei ci agita il
fazzolettino Sudato d'amore, pieno di
sole Tira il carro prima che
finisca questa Rattus Testo: Ducoli Musica: Kutov (17 agosto
2008) Aria di tempesta Risposta troppo corta un
“sì” Si sente in giro l'ansia Che sbatte la finestra Arriva la
tempesta, vola via il cappello dalla testa Volano le
foglie per la strada sotto casa Volano le
tortore sul tetto della chiesa L'acqua ormai
funesta, rompe la finestra alla mia buca Lucida la
strada con un metro di rugiada Prende la mia
coda e mi allontana dalla riva Pioggia a
catinelle, galleggiano per strada le smarrite pecorelle Segnate dagli
eventi e non contente del momento Andranno con
il fiume dove vuole la fortuna Galleggiano
anche i fratelli, aspettano che torni qualche luna Poveri
somarelli, nessuno ci ha creduto che bastava un solo istante Andranno più
distante per davvero Un primo segnale e mille
gocce di pioggia Aria di vento che
diventa bufera C'era la strada dove
adesso c'è l'acqua C'era una casa, era
tutta intera Le renne sulla neve perenne Testo: Ducoli Musica: Ducoli (26 dicembre
2008) Santo Nedàl,
pargòl de 'i Persa la
cràpa, la resta la giàca Santa
Pazienza, la me làga amò senza La dìs ché la
nòt, la 'òl mìga beshòc Santo Catìf,
fò fadìga a capì Persa la
gamba, tacàda a la banda Santa
Sfurtüna, l'è bianca la lüna L'è negra,
l'è üna, l'è hempèr a' chèla Santa
Miseria, la cünta la storia La gira, la
'olta, l'è cürta, l'è storta Santo
Demonio, go 'it la paura Antonio l'è
ùra de dàga 'a la sciùra Santo Nedàl, la fà màl … Santo Natale,
il Bambino è ubriaco Ha perso la
testa, si vede solo la giacca Santa
Pazienza, mi lascia sempre senza La notte è
questione da grandi, pazienza … PICCOLI ANIMALETTI I cattivi sentimenti 2009 Cap. I Quando
si dice “un ordinato preludio” Cap. II L’inizio di una “complicata faccenda”
durata dieci lunghi anni Cap. III Il rivelatore segnale di uno spostamento di
foglia prima della grande tempesta Cap. IV L’anima
polverosa delle cose dimenticate in fondo alla cantina Cap. V La
strana condizione di ”Malura” Cap. VI Il
complicato concetto dei silenziosi cento difetti Cap. VII La
strana inconsapevolezza che hanno certe silvie Cap. VIII Il
compromesso scaturisce sempre storto nel serrato dialogo di guerra Cap. IX Il
domestico volo della cinciallegra e la diffusa “perdita del filo logico” Cap. X La
storia non comune di molti piccoli animaletti Cap. XI La
complessa teoria dell’accensione del motore della Guzzi del mio amico Laccabue Cap. XII L’ingiusta
condanna senza processo del mulo Cap. XIII La
fragile ruota del carro che procede sul greto morto del fiume Cap. XIV Il
vaso delle viole sopra un davanzale suscita quasi sempre dei buoni sentimenti Cap. XV Le
difficili idee alternative di un “germano irreale” tra i germani reali Cap. XVI Una
“nuova città” non significa necessariamente che sia diversa da quella vecchia Cap. XVII Quando
si dice “è arrivato il momento di agire” Cap. XVIII L’ottimistica ideologia del ratto Cap. XIX L’altra
faccia della sfortuna non sempre si chiama fortuna Cap. XX Tutte
le nostre personali teorie sull’inizio e sulla fine delle cose Cap.
I Quando si dice “un ordinato preludio” He prayeth well, who
loveth well, both man and bird and beast Questo è il mio
divano. Il mio angolo di divano, sfondato. Con dentro ancora l’odore del
cane. Polvere. Oggetti. Il baule che uso come tavolino. Questa è la bilancia
da tre grammi per le “fumate lunghe”. Poi ci sono le scatole Paul Olsen1. Poi le Peterson, le Moretti, Brebbia, Mastro de Paya, Ser Jacopo, Savinelli2.
Ci sono scovolini in nailon e cotone. Un’armonica il La maggiore. Sigari e
scatole vuote di sigari. Il libro delle frasi celebri. Il manuale tascabile
di degustazione per malti. Fiammiferi. Cenere e posacenere. Un bicchiere del Lochside Hotel3. Un sacco
di altra robaccia. Tutta ammucchiata sopra il mio “tavolino”. Così ben
disordinata da sembrare ordinata. Negli altri angoli
della casa la situazione è esattamente la stessa. Altri bauli, riempiti con “cose”
che vanno tenute lontane dalla luce (alcune preziose, altre meno). Due
finestre, chiuse. Dietro di me la cucina, uguale a prima. Bicchieri e piatti
ammucchiati. Una pentola con uno spaghetto rinsecchito che gli penzola da un
lato. La moka rovesciata sul fornello, scura, bruciata. C’è un cadavere di
vaschetta per il prosciutto appoggiata sul ripiano del pane. Una scatola con
dentro strani biscotti. Nell’angolo del muro c’è il frigorifero, aperto,
quasi vuoto. C’è una scatola di cibo per cani con dentro una forchetta. Sopra
il frigorifero c’è la vasca dei pesci rossi, ha uno strano colore. Ci sono
anche bottiglie appoggiate su varie mensole. Libri, musica e altre cose.
Fotografie in bianco e nero, fotografie a colori. Disegni colorati e altri un
po’ meno. Ragnatele. Sotto il mobile grande, vicino ad una macchia scrostata
e riempita di muffa, c’è un calzino accartocciato. Abbandonato. Solo. Tutto qui.
Esattamente come lo avevo lasciato dieci anni prima. (…) Forse sono stato io stesso a chiedere che nessuno
si prendesse la briga di dare un’altra forma o un altro ordine alle mie cose.
Non ricordo. È stata una richiesta? Una supplica? Un testamento? O più
semplicemente a nessuno è venuto in mente di entrare qui dentro dopo quello
che era successo!? In tutto questo tempo il pensiero che durante la mia
assenza mi avrebbero rubato ogni cosa, comprese quelle buone, era sempre
stato malvagio e presente. Invece niente di tutto questo. Meglio così. (…) Cap.
II L’inizio di una “complicata faccenda” durata dieci lunghi anni That girl deserves her revenge.
And we all deserve to die. Sono passati dieci
anni e non capita tutti i giorni. Soprattutto se neanche te ne accorgi. Non
so cosa dire. Davvero. Non ci riesco. Ho avuto poche occasioni di dialogo in
questo tempo. Anzi, pochissime. Non riesco a ricordare più niente. Dovrei
pensarci un po’, un attimo solo, magari solo il tempo necessario a rimettere
insieme i pezzi di tutta questa “complicata faccenda”. Forse un po’ di più,
devo assolutamente riuscirci. Ma in questi anni devo aver perso la mia
proverbiale dimestichezza mentale. Ho pensato sempre da solo, senza mai
confrontarmi con nessuno, e i miei pensieri, così uguali e ripetuti, hanno
perso ogni tipo di importanza. Sono diventati nient’altro che dettagli. Capisci!?
La cosa meno
confusa che ricordo? La nostra sconfitta. Perché di sconfitta si deve
parlare. È andata proprio così. Bastardi! Malvagi! Ci hanno punito. Puniti e
condannati. Senza appello, senza nemmeno alzare un dito. Senza nemmeno
sporcarsi le mani. Almeno così credo che sia successo… hanno lasciato che
fossero i loro stessi burattini a mettere i fili anche a noi. Altro che terzo
grado di giudizio, terzo grado e basta, catturati per aver catturato qualcosa
che non dovevamo nemmeno toccare. Oppure è stata questa stessa cosa a
catturarci? Non ricordo, questo non lo ricordo. Non ricordo neanche questo. È
da un pezzo che continuo a pensarci, molto, fino a sbattere la testa nel
muro, e senza cavare un ragno dal buco. Ci ho cavato soltanto che mi fa male
la testa. Molto male… (…) Le cose a volte non vanno come credi. Di solito
vanno come hanno voglia di andare... sempre. E non c’è verso di farle andare
in un qualsiasi altro modo. Io ero così abituato a stare attento a come
andavano le cose, che avevo addirittura imparato a stringere forte le chiappe
per evitare che potessero andare peggio. Abbiamo un culo soltanto e offrirlo
distrattamente alla sfortuna sarebbe davvero uno spreco. (…) Cap.
III Il rivelatore segnale di uno spostamento di foglia prima della grande
tempesta I got a thing about chickens. C’erano un sacco
di cose da fare e tutte furono fatte. Anche bene. Molto meglio di com’eravamo
abituati. Io stavo in
guardia come mai mi era successo prima. Sapevo che questa volta occorreva
essere precisi e puntuali. Non volevo lasciare a nessuno la briga di trovare
occasione per inguaiarci. Eravamo stati puliti fino a quel giorno e così
doveva essere anche per i giorni seguenti. Tutto era stato studiato nel
minimo dettaglio: le mappe, gli orari, la gente, le azioni, il clima, la
temperatura, ogni sasso, ogni spostamento di foglia. Anche il piano di
fuga... Poi, improvvisamente, tutto è diventato confuso, tutto stava per
diventare tempesta. Serviva maggiore attenzione, ancora di più. I pezzi del
nostro prefetto castello di idee avevano cominciato a non combaciare così
bene come invece ci era sembrato, c’era la fretta ad occupare ogni azione,
dovevamo decidere se era davvero il momento di agire o se era meglio fermarsi
e lasciar perdere tutto. Abbiamo aspettato. Poco, purtroppo... Era comunque un
periodo difficile ed io, ad ogni buon conto, evitavo di coinvolgermi in
troppe cose per non rivelare fino in fondo quale fossero le nostre nuove
intenzioni. La nostra città, dal canto suo, era come sempre occupata nelle sue
faccende e soprattutto sembrava sempre più abitata dai Malvagi, compresi quelli inconsapevoli della loro manifesta
malvagità. Io non volevo mischiare i miei affari con i loro, non mi andava
per niente. Non ci riuscivo e quasi pensavo di essere al sicuro da tutto e da
tutti. Ma anche nella città vige la stessa “regola di sempre”: (…) Io mi siedo spesso al banco del bar. Soprattutto
quando ho i miei pensieri addosso. Guardare le bottiglie mi evita la
distrazione di guardare gli angoli dietro di me; è una buona “via di fuga”
per il libero pensiero. Ma è anche un po’ snob, lo so. Ed è soprattutto una
brutta cosa se diventa abitudine. (…) Cap.
IV L’anima polverosa delle cose dimenticate in fondo alla cantina Like a dog without
a bone In quel periodo
dormivo quattro ore ogni venti. Ogni tanto inserivo altre quattro ore di
sonno tra le venti che ero sveglio. Tra una cosa e l’altra invece studiavo
ogni loro mossa. Studiavo le azioni, l’ambiente naturale. Studiavo tutte le
cose che li riguardavano. Loro invece non facevano assolutamente nulla… o
almeno così sembrava. Perché in effetti erano molto occupati per prepararsi
ad accoglierci con tutti i loro “gentili fucili” spiegati: sapevano tutto
prima ancora che “tutto” avesse inizio. Qualcuno li aveva informati... Noi eravamo
consapevoli di essere degli “sbandati”, così come sapevamo che prima o dopo
ci avrebbero comunque “blindati”, ma finire traditi in quel modo fu davvero
difficile da ammettere. Anche perché per noi non era importante vincere, era
invece più importante vederli perdere. Niente di più. Loro erano delle vere e
proprie “fuori serie”, mentre noi eravamo nient’altro che dei “fuori
catalogo”, eravamo “niente”. Niente di più che un fondo di magazzino lasciato
lì ad ammuffire prima dell’inclemente inventario annuale. Svenduti o regalati
nella migliore delle ipotesi, mandati al macero nella più probabile delle
ipotesi rimanenti. Servirono non
pochi e meticolosi pomeriggi d’indagini per completare l’analisi di come
organizzavano la faccenda… nonostante fosse tutto “abbastanza ordinario”. C’erano i Capoccia che mettevano il Grano, una parte stimata non oltre il
dieci per cento dell’incasso finale. Al di sotto dei capoccia c’erano una
serie di fidati Subalterni,
perfettamente istruiti. Il loro compenso era stabilito in una percentuale
comunque non superiore al venticinque per cento dell’incasso finale. Se le
cose andavano male la colpa era loro e non certo dell’investimento iniziale.
Si trattava di dei veri e propri “cani da sangue”… poi c’era Non credo ci sia
niente di nuovo in quello che ti ho detto. Sono sicuro che hai molti esempi
analoghi anche tu. Ma forse c’è una cosa che non ti è ancora chiara: … il vero problema non era come andavano
le cose; il vero problema era che quelli che se ne stavano più o meno consapevolmente
ai margini della partita, venivano comunque esclusi da ogni ipotesi di gioco.
Indipendentemente dalla Merce che
avevano da proporre e ancora di più se si trattava di “merce” migliore.
Quando facevano passi troppo lunghi, infatti, erano considerati un disturbo
di cui disfarsi senza troppi complimenti, con ogni mezzo disponibile, meglio
se pulito o certificato ma non necessariamente. Così andavano le cose, capisci!?
Era un perfetto regime di monopolio. Assolutamente certificato: … il Monopolio della merda. Vagliato e
protetto dalle leggi che pensavano e si approvavano loro stessi. (…) Se accetti di giocare una partita truccata, o hai
giocato tutti i tuoi risparmi sul risultato “necessario”, oppure lo fai
perché sei minacciato; oppure ancora perché sei pagato per farlo. Qualcuno la
gioca anche solo per il gusto di “spaccare distrattamente” qualche caviglia,
ma in genere si cura molto bene di garantire il risultato concordato. Altri invece stanno
fuori dal gioco. Nella maggior parte dei casi è così. Poi ci sono alcuni
“distratti giocatori” che la vogliono giocare per cambiare il risultato. Ma
sono dei pazzi. Li trovi soprattutto nei libri delle bancarelle dell’usato e
in qualche consumata pellicola dal sentimento facile… (…) Cap.
V La strana condizione di ”Malura” Come la pioggia tutto vien giù a secchi oppure non
viene affatto. (…) Quando osservo un animale rinchiuso allo zoo non
mi riesce mai di capire quale sia la sua vera condizione. Non è rabbia, a
volte nemmeno rassegnazione e nemmeno sconfitta. È qualcosa di diverso, forse
di molto cattivo e latente. È una strana condizione che ho chiamato Malura
perché non mi viene niente di meglio… (…) Avremmo dovuto
aspettare ancora un po’, senza precipitare le cose. Lo ammetto. Perché non
eravamo ancora del tutto preparati… Maledizione!…
quando la fretta si mette di mezzo alle cose, le cose ti riescono sempre male.
È sempre così. Altrimenti è fortuna, e sinceramente io e la fortuna siamo
andati d’accordo soltanto un paio di volte. E sempre in occasioni non troppo
importanti. Le nostre intenzioni iniziali erano rivolte alla creazione di un
“piccolo caos”. Un piccolo semplice caos di avvertimento. Niente di cattivo… forse.
Solo per far capire a quei vigliacchi che qualcuno si era davvero stancato di
tutta questa storia bugiarda. Era l’unico modo per farli uscire dal guscio e
capire definitivamente con quali facce si aveva a che fare. Il resto sarebbe
dovuto accadere immediatamente dopo: il vero attacco finale. Io credo che ci
sia una grande differenza tra una Variabile
imprevista e una Variabile
sabotatoria: un’imprevista bufera di vento e di pioggia durante un
bombardamento può anche condizionare le linee di mira e di conseguenza
determinare anche il fallimento dell’intera manovra di attacco; il sabotaggio
dei cannoni invece manda comunque tutto nel fosso. La variabile imprevista la
puoi anche tollerare perché appartiene alle “normali regole di guerra”, ma il
sabotaggio è doppio gioco, è cattivo, è subdolo, non appartiene alle “buone
regole della guerra”. Non lo puoi tollerare, soprattutto se è causato da
qualcuno che sta dentro al tuo “perfetto e ben oliato” marchingegno. Il
sabotaggio ti lascia davvero senza parole. Ti lascia per qualche secondo con
la stessa faccia di quelli che hanno acceso il fiammifero per controllare se
c’è ancora benzina nel serbatoio… (…) Mi sentivo come la sfumatura scura che determina
la profondità del disegno. Mi sentivo anche molte altre cose ma questa cosa
della profondità del disegno mi sembrava più efficace, più analitica.
Certamente la forma più elevata tra tutte quelle disponibili per descrivere
lo stato d’animo che avevo in quei momenti di certezza dell’azione. A volte
invece mi ero sentito come il disegno sbiadito, una volta invece ero stato il
disegno finito nell’acqua, un’altra volta finito nel fuoco … un’altra ancora
addirittura nel cesso … (…) Cap. VI Il complicato concetto dei silenziosi cento
difetti 300.000 ettari
di bosco andati in fumo, bruciati per lasciare il posto alle praterie di cui
avevano bisogno gli allevatori di bestiame. La vita di tutti è
riempita di leccapiedi, di ladri, di avidi e di bugiardi. Non è certo una
novità e francamente non è nemmeno un problema. Il vero problema è essere
certi di non appartenere a nessuna di queste “categorie”. Per me era così… Forse ero stato
solo un po’ presuntuoso, ma nella mia bilancia delle azioni, quelle buone
avevano sempre avuto un peso maggiore di quelle cattive, o almeno lo credevo.
Come ho sempre creduto che ognuno di noi abbia un suo personale progetto di
vita. Perché anch’io ne avevo uno, e pensavo che questo progetto potesse
vivere da solo senza troppe complicazioni e senza sovrapporsi ai progetti di
nessun altro individuo. Non mi interessava nemmeno interessarmi di altri
progetti. Il mio progetto mi assorbiva così tante risorse che non me ne
avanzavano altre. Ma non è così che vanno le cose… la realtà è quasi sempre
un’altra. All’inizio di
tutto, ad esempio, pensavo che i rispettivi disegni avrebbero potuto vivere
una vita indipendente, libera, come se avessimo avuto tavolozze diverse su
cui ognuno dipingeva quello che gli andava di dipingere. In libertà. Invece
non era così: … la tela su cui
dipingiamo è la stessa per tutti. E così il mio piccolo spazio cominciò
ad avere colori troppo diversi dagli altri. Cominciò a “disturbare”
l’equilibrio dei colori scelti per il resto della tela. Il risultato fu
semplicemente questo: quella che fino a quel giorno sembrava essere una
libera convivenza, stava cominciando ad assumere i connotati di una guerra. C’era in giro
molta gente che non aveva niente da dire e invece la diceva comunque... Anche
io dicevo le mie cose, ma accontentandomi di raccontarle in silenzio. Quasi
senza chiedere niente. Mi limitavo ad avere qualche periodo di sconforto in
cui pensavo che forse ero davvero mediocre. Ma cosa importa: … se fai quello che fai senza disturbare
nessuno perché preoccuparsene tanto!? Il vero problema iniziò quando
crebbe in maniera incontrollabile la sensazione di obbligo a dover
riconoscere il valore altrui. Non mi andava di sostenere che i colori del
loro disegno fossero meglio dei miei. Io osservavo il quadro sempre e
soltanto dal piccolo angolo di tela che mi avevano concesso. Mi era quasi
sembrato che tutti i colori che stavano intorno al mio disegno fossero
semplicemente funzionali ad accrescerne il valore, come se si trattasse di
una perfetta cornice. Nelle mie presuntuose elucubrazioni analitiche, pensavo
infatti che la debolezza degli altri colori potesse mettere in chiara
evidenza i colori che avevo scelto io. Ecco cosa pensavo, ma non era un
giudizio, era una sensazione, personale, taciuta, e a me bastava. Non mi
serviva nient’altro che continuare a completare la mia parte di tela, quasi
consapevole che loro, continuando in quella direzione, non avrebbero fatto
nient’altro che completare la cornice del mio “capolavoro”. Invece non è
stato così… Mi hanno chiesto di smettere. Hanno chiesto il mio spazio perché
il loro non era più sufficiente. Mi hanno chiesto di abbandonare il mio
disegno perchè il completamento di quella fredda cornice lo richiedeva.
Nient’altro. Ecco perché ho iniziato ad esternare giudizi, ma non era nella
mia indole. Non tolleravo il giudizio sul mio lavoro e non capisco perché
avrei dovuto esprimerne su quello degli altri… Così ho iniziato ad odiarli.
Prima in silenzio, sempre un po’ di più. Poi ad alta voce, sempre un po’ di
più. (…) Io mi sono sempre soltanto preoccupato di non
peggiorare le cose che già stanno bene. Può sembrare un concetto facile ma in
quegli ultimi tempi sembrava diventato utopia. Non mi interessava nemmeno
l’opinione diffusa che per fare davvero qualcosa, sulla bilancia che
definisce il tuo peso finale, è necessario metterci anche qualcosa di
ingiusto e sbagliato. Forse è stato anche questo a far cadere il mio piatto…
(…) Cap. VII La strana inconsapevolezza che hanno certe
silvie È tardi, tra i rami sul Ticino un beccaccino sfiora le
foglie, travolto dagli spari Nelle mie molte
“giornate normali” mi capitava spesso di fermarmi a guardare le cose. Avevo
dei buoni tabacchi e molti distillati che mi aiutavano anche a capirle. Era
meraviglioso. Mi divertivo a scegliere tra le mie pipe quella che meglio
avrebbe potuto, in quel momento, rappresentare il solista dell’orchestra
incaricata di eseguire la mia colonna sonora. Poi sceglievo la scenografia,
sceglievo luoghi diversi a seconda dei casi. Poi sceglievo gli attori, poteva
trattarsi di cose inanimate così come di cose animate, uomini e donne
compresi. In genere il primo acchito delle mie scelte era semplicemente
dettato dalla necessità di staccare il cordone ombelicale che mi legava al
mio mondo d’origine ed iniziare a conoscerne altri. Credo che si trattasse di
un’innocente e necessaria curiosità indagativa. A volte era solo stanchezza o
qualcosa di simile ad una sorta di romanticismo latente. Quel giorno era il
turno delle cose animate e del romanticismo. Quel giorno era il turno della
mia Croce d’Oro4, uno
strumento del secolo scorso in grado di avere più voci. Moltissime voci,
ognuna decisa dalla personale linea di interpretazione che volevo seguire. La
scenografia era una distaccata passeggiata tra alberi, siepi e selciati. Con
il cane, nel pomeriggio. Un pomeriggio davvero perfetto, domenicale. Avevo iniziato a
studiare la silenziosa presenza di un sacco di animaletti. Leggeri, graziosi,
piccoli, piccoli animaletti con fare gentile. Ero piccolo anch’io, seduto in
un angolo di mondo insieme a loro, con il cane in attesa di un qualsiasi
ordine al disordine. Fumavo, in una condizione di quasi equilibrata
convivenza. La mia attenzione fu presto catturata dalla presenza di una bigia5 nascosta dentro la
siepe. Non si era accorta di me e stava appoggiata tra i rami a guardare il
suo pomeriggio. Ogni tanto sceglieva un altro ramo. Distratta e disimpegnata.
Anarchica… Anarchicamente disimpegnata. Eravamo la stessa persona, avevamo le
stesse intenzioni ed eravamo animati dalla stessa anarchia. Anch’io ero lì ad
osservare il mio pomeriggio, immerso in un velo di goduto romanticismo. Perso
tra meravigliose e silenziose cose animate, assolutamente convinto della loro
innocente bellezza. Improvvisamente,
un colpo di cartuccia dall’altra parte della siepe interruppe ogni mia
personale e sentita dissertazione sulla bellezza delle cose. La sfortunata
bigia fu raccolta da un cane e prontamente “riportata” a chi ne aveva
rivendicato il possesso… Ecco come finisce
la bellezza: tra le mani di chi non ha capito. Sempre. (…) A volte si muore anche se non si vuole. Succede un
po’ a tutti... (…) Cap. VIII Il compromesso scaturisce sempre storto nel
serrato dialogo di guerra Dato un esagono semplice inscritto in una conica cioè avente i vertici appartenenti alla conica i lati opposti di esso si tagliano in tre punti di una
stessa retta Era un periodo
davvero non facile. Nonostante ogni mia sincera e propositiva disponibilità
di autoanalisi non riuscivo davvero a ritenermi complice di questa brutta
situazione. Pensavo di essere onesto, anche con me stesso. Nemmeno più mi
lamentavo nell’osservare ogni giorno come andavano le cose. Aumentava infatti
in maniera esponenziale la presenza di stronzi che salutavano felici quelli a
cui leccavano il culo e con odio tutti gli altri, sempre più impegnati ad occupare
gli spazi di tutti. Non era una difficile osservazione. Così come del resto
non era difficile osservare che si trattava della storia dell’uomo e di
conseguenza evitare di farsi ulteriori domande. Ma non è sempre facile,
soprattutto quando il tuo “valore di giustizia” sovrasta ogni tua innocente e
legittima necessità stessa di “giustizia”. Ci rimetti quasi sempre… In questi
casi di solito a farne le spese sono sempre i sognatori e gli idealisti, ma
quella volta ci ho rimesso anche io. Perché anche io, come tutti i sognatori
e gli idealisti, amavo così tanto alcune cose da non riuscire a vederle sotto
altri punti di vista. Io mi ero
ritagliato un mio personale spazio vitale. Me lo ero costruito a misura e
andava davvero “molto bene”. In equilibrio, un quasi naturale equilibrio. Ma
si trattava, proprio come in natura, di una condizione di equilibrio apparente. Perché
l’equilibrio non è una condizione statica e immobile; continua ad essere in
movimento, con piccoli e quasi impercettibili spostamenti verso qualsiasi
direzione. Spostamenti che vengono sempre prontamente riassorbiti dal sistema
se rimangono all’interno dello spazio che forma il sistema stesso. Quando
invece escono da questo spazio, l’equilibrio è perduto. Ecco perché ho
cominciato a faticare… perché nessuno spazio in equilibrio è davvero libero.
Maledetta “struttura definita da un
insieme di relazioni spaziali tra oggetti“, la sua stessa esistenza
dipende dalle sue interazioni con altri spazi. Semplice: … se volevo un mio equilibrio personale era necessario relazionarlo
con quello degli altri. Dovevo capirlo meglio, così come dovevo capire
che il vero trucco della vita non è altro che evitare che le relazioni che
legano il tuo spazio a quello degli altri non degenerino mai nella
dipendenza. Perché quando c’è la dipendenza lo spazio maggiore si prende
sempre quello minore, soprattutto se è forte, violento e guidato soltanto
dalla sua stessa arroganza. (…) Le cose cominciano ad andare male quando
contengono un po’ di ansia. E vanno anche peggio quando l’ansia si aggiunge a
se stessa. In quell’esatto momento le sensazioni diventano odio. E l’odio non
è mai costruttivo… (…) Cap. IX Il domestico volo della cinciallegra e la
diffusa “perdita del filo logico” Vi avevo precedentemente messo a parte delle mie
elucubrazioni Però, nonostante i miei reiterati inviti alla
tolleranza e alla autocritica il risultato è sconfortante Pertanto, vieppiù deluso e amareggiato, ma non per
questo scevro da colpe Vi invito ad
intonare con me il canto propiziatorio, penitenziale, giaculatorio e di
speranza che fa … li belli gladioli Le cince sono
animali cordiali, molto cordiali, quasi domestiche. Prima di ogni altra cosa
mettono sempre avanti la fiducia nel prossimo. Mai bugiarde, mai false come
quelli che subdolamente provano ad imitarne il volo e le docili movenze con
il chiaro obiettivo di avvicinarsi al nemico e poi colpire. Io avevo imparato
a distinguere bene le due cose. Ovviamente preferivo le cince ma non è
sufficiente. Anche io, ad esempio, avevo le mie grandi debolezze. Nel mio
passato di “fanciullo cacciatore” ricordo che il primo sparo che ebbe una
nota di merito tra i “vecchi”, fu proprio l’abbattimento di una Cinciallegra6. Gentile,
curiosa e distratta. Era molto tempo fa e non avevo ancora imparato ad avere
un’anima diversa da quella che vogliono darti i tuoi padri. Non potevo
capire, non mi era stato ancora permesso di provare a capire... oggi forse ho
un’anima mia e non voglio nemmeno pensare che non sia così, vorrei solo
chiedere scusa, ma non è sufficiente… La gente aveva
cominciato a dare inequivocabili segni di sbandamento, prima apparente poi
quasi evidente. Anche quelli che avevano ancora un barlume di luce negli
occhi si erano quasi spenti nella loro stessa ombra: … Autoesiliati. Ma nel loro caso ero convinto che si sarebbero
presto uniti alla guerra se qualcuno avesse ridato loro entusiasmo e fucili.
Per molti altri invece non era così; almeno così mi sembrava. C’era infatti
in giro un sacco di gente che aveva perso il filo del discorso. Succedeva
anche a me, ma io pensavo fosse solo un problema di lettura: … ho letto male le pagine precedenti, devo
rileggerle, altrimenti diventa difficile andare avanti. Mi sembrava
semplice, quantomeno efficace per risolvere il problema della “perdita del
filo logico del discorso”. Invece per molti altri non era così. Molti infatti
pensavano che non serviva rileggere proprio niente, serviva solo arrivare
alla fine del racconto: … Arrivisti.
Poi c’erano anche quelli che non curanti di risolvere il problema della “perdita
del filo logico del discorso” perdevano un sacco di tempo a meditare sul
senso stesso della “perdita del filo logico del discorso”: … Meditandi. Meditavano molto. Era
diventata quasi una moda: meditavano sulla perdita della logica di un buon
stile di vita, sulla perdita della logica dell’approccio tra noi stessi e
l’universo, sulla necessità di una nuova e più logica “etologia religiosa”,
sull’illogico-logica presenza intorno a noi di curiose presenze spirituali
come elfi, gnomi, orchi e funghi magici. Meditavano nuovi sistemi di
meditazione quando si era perso il filo logico della meditazione stessa. A mio avviso si
meditava davvero un po’ troppo, soprattutto in considerazione del fatto che
molti se ne stavano approfittando: … Subdoli.
Subdolamente diretti in direzione opposta. Erano così subdoli che il loro
vero obiettivo era mantenere la diffusa “perdita del filo logico del
discorso”: avevano infatti capito che questa cosa avrebbe tenuto occupata e
distante un sacco di gente, permettendogli di conferire “la loro logica
finale” al filo logico delle cose. Poi c’erano i Distratti, ai quali non importava niente di niente e proseguivano
a dipingere il loro pezzo di tela, senza preoccuparsi di dover eventualmente
cedere spazio in caso di “necessità”. Sapevano infatti che in ogni caso
avrebbero presto ricevuto un nuovo e più piccolo pezzettino di tela su cui
dipingere ancora la stessa cosa di prima. Un po’ più piccola. Poi c’erano altre Categorie e io, sinceramente, non so
dire a quale di queste appartenevo… (…) Ho sempre amato le anatre. Le anatre sanno
scodinzolare come fanno i cani. Peccato che non sappiano abbaiare… (…) Cap. X La storia non comune di molti piccoli
animaletti Sono contento di non aver dato alcun seguito a quel
peccato di volerti un giorno mangiare Un oggetto non è
mai davvero smarrito fino al giorno in cui te ne accorgi. Molte volte ad
esempio si ritrovano oggetti che nemmeno si sapeva di avere smarrito. Erano
persi? Sono sempre stati nello stesso identico posto dove li avevamo dimenticati?
Oppure erano distrattamente scivolati in qualche angolo dietro al divano? Fu proprio in quei
in quei giorni di forsennate analisi organizzative che la perdita della mia Croce d’Oro diventò il più triste
presagio di sconfitta che potessi trovare tra le pieghe disordinate delle mie
elucubrazioni belliche. Perché proprio lei? Perché tra tutti i miei “ferri da
guerra” se ne andò perduto proprio quello più fidato? Era una semplice pipa,
come tutte le altre che sempre usavo per “dichiarare guerra” al pensiero. Ma
purtroppo quel cattivo presagio passò quasi inosservato... Io ero così
abituato a fare quello che facevo, che quasi non mi serviva più nemmeno il
cervello. Si trattava di automatismi, azioni consolidate che per essere
svolte non richiedevano l’uso di nessun tipo di cervello. Non è un problema,
almeno non fino a quando il cervello ti serve di nuovo. In questo caso può
anche accadere che lo ritrovi subito senza troppa fatica e ricominci ad
usarlo senza nessun problema di sorta, come se fosse un qualsiasi oggetto
ritrovato per caso e che nemmeno sapevi di avere perduto, occorre solo
lasciargli il tempo di rioliare gli ingranaggi di base ma nel complesso
riprende a funzionare dallo stesso punto in cui lo avevi abbandonato. Molto
diversa è invece la situazione in cui la consapevolezza di averlo perduto
supera la necessità di ritrovarlo immediatamente. In questo caso la
situazione può anche degenerare nel panico, soprattutto quando il bisogno di
avere un cervello, in quell’esatto momento, ti arriva da una perentoria
richiesta esterna, da qualcuno che ti chiede se hai ancora un cervello
utilizzabile e, soprattutto, da utilizzare immediatamente. È in questo caso
che le cose possono davvero degenerare: oltre alla paura di non sapere quanto
olio ti servirà per rimetterlo in moto, infatti, subentra il panico del non
sapere nemmeno dove lo hai abbandonato. In questi casi il panico spesso
supera ogni altra e più costruttiva sensazione. Diventa così forte da
impedirti anche il normale esercizio di ripercorrere per filo e per segno le
ultime azioni conosciute, dall’ultimo momento in cui ricordi di avere avuto
un cervello… (…) Quando sei abituato a non pensare alle cose che
fai o sei uno senza cervello, oppure l’attitudine stessa al pensiero è stata
così ben allenata da diventare un dettaglio. Nel primo caso, significa che
stai facendo l’ennesima inconsapevole schifezza, nel secondo caso, significa
che la necessità di pensare è brillantemente superata dall’aver fatto la cosa
giusta senza averci pensato. Se guardi da fuori le due cose puoi definirle
entrambe “prive di cervello” ma il risultato non è certamente lo stesso,
soprattutto se si è direttamente interessati al risultato dell’azione. (…) Cap. XI La
complessa teoria dell’accensione del motore della Guzzi del mio amico
Laccabue La natura non vi chiede il permesso; non gliene
importa niente dei vostri desideri e se vi piacciono o no le sue leggi Si trattava di una
semplice conclusione di discorso: … se
non c’è stato nessun inverno allora non è nemmeno iniziata la primavera.
Gli alberi avevano già messo i fiori e nessuno aveva ben chiaro cosa fosse
successo in quello strano inverno. Molti pensavano semplicemente che un
inverno caldo era meglio di un inverno freddo. Altri non pensavano niente. Il
3 marzo c’era stata persino un’eclissi di luna, ma non servì neanche questo.
Molti non si mossero di un solo centimetro. Fosse accaduto in un’altra epoca,
questo concomitare di eventi non sarebbe certo passato inosservato. Qualcuno
avrebbe addirittura scritto migliaia di pagine sulla fine o sull’inizio del
millennio; altri avrebbero dato a quella luna rossa un chiaro significato di
avvertimento; altri avrebbero parlato del Presagio;
altri avrebbero acceso “nuovi roghi”; altri ancora avrebbero scritto un sacco
di cose sulle congiunzioni matematiche del tempo o sull’allineamento ciclico
dei pianeti o sulla fine del mondo conosciuto. Invece quel 3 marzo nulla. La
gente non ci aveva quasi badato. Ma forse era meglio così… Comunque la
primavera era davvero cominciata, già da qualche settimana, quasi due mesi
prima del suo calendario ufficiale. Gli insetti avevano già completato le
loro faccende da post risveglio e gli alberi erano già pronti alla nuova
stagione, prima ancora di aver “buttato” le foglie. Io non sapevo quale fosse
il vero significato di tutto questo ma mi piaceva osservare la gente
comportarsi esattamente come gli alberi e gli insetti. Prima che le mie
ipotesi di guerra prendessero il sopravvento nei confronti di ogni altra
possibilità alternativa, pensavo di ritirarmi dalla vita sociale per un po’ e
di studiarne l’effetto. Non volevo combattere nessuna guerra, volevo solo
studiare alcune cose. Tutto andò bene finché non mi accorsi che anche io
stavo diventando come le cose che stavo studiando. Potevo reagire a questa
cosa in qualsiasi modo, ma mi sono limitato a pensare che mi occorrevano
ulteriori spunti di analisi. Dovevo continuare a studiare, molto di più. E
così quello che doveva essere soltanto un lungo viaggio per osservare come
cambiano le cose se non fai parte di esse, si è trasformato in un estremo e
personale tentativo di cambiarle. E alla fine di tutto … sono passati dieci
anni e non ho ancora capito niente. Se non che forse, siamo anche noi come
gli alberi e gli insetti. (…) Per molti di loro io sono il matto. Uno iettatore
sociale, uno spostato dalla norma. E solo perché ho obiettivi diversi … solo
perché quando Cap. XII L’ingiusta condanna senza processo del mulo Il compito di organizzare e indottrinare gli altri
cadde naturalmente sui maiali, ritenuti per comune consenso gli animali più
intelligenti. Immagina di essere
davanti alla morte. Stanno pronunciando la tua condanna finale. Nonostante
ogni tuo tentativo di dichiararti innocente sei stato giudicato colpevole,
nonostante la chiara malafede di tutta la corte di giustizia. Venduti! Quale
parola diresti come tuo atto finale? Un insulto? Un “vaffanculo”? Un “… siete
tutti dei bastardi”? Qualcosa di più apocalittico tipo “…io sarò più forte da morto che da vivo”?
Cosa diresti? Daresti la colpa al porco? Una cosa è certa: nessuno di noi si
asterrebbe da una qualsiasi forma di insulto. Compreso il mulo che in genere
resta sempre in silenzio. Io avevo
pronunciato l’insulto “esatto”: una sorta di formula magica che ti sveglia
dal tuo letargo; l’esatto comando vocale che riesce ad inceppare la
ghigliottina … per tre volte. Una perfetta combinazione di suono e parole,
un’urlata replica finale. Improvvisamente, il mio tribunale mentale si era
dissolto in un niente: una bestemmia e poi più niente. Nemmeno la conferma
del giudizio. Era stato un incubo, un atroce incubo, e il mio risveglio
sudato conteneva il chiaro avvertimento che le cose che stavamo tramando non
mi avrebbero garantito la grazia a priori. Inoltre, in quei giorni, le prime
avvisaglie di sconfitta si avvertirono chiaramente. Mi ero infatti trovato
nella stessa stazione con uno di loro, era vestito ovviamente bene,
impeccabilmente, eravamo sullo stesso vagone e nonostante la mia ben riuscita
indifferenza, quel ghigno malefico non mi suggeriva per niente un evolversi
positivo degli eventi. Poteva infatti trattarsi di disprezzo o forse di
abituale “aristocratica spocchia”, ma qualcosa sembrava davvero diverso quel
giorno, non era autoconvinzione quel ghigno, era certezza … e io avrei dovuto
capirlo e lasciar perdere tutto. (…) Nella mia scala di valori preferisco omettere le
condizioni sociali. Perché mi danno fastidio. Non mi va di sostenere che sia
meglio la condizione del Mulo o quella del Porco. Questa distinzione contiene
infatti l’implicita ammissione che il “Fattore”è posto legittimamente un
gradino più in alto. Se devo analizzare la questione del Mulo e del Porco,
non posso escludere il ruolo del “Fattore”. È un fattore imprescindibile.
Perché una volta “risolta” questa prima necessità, l’analisi può proseguire
molto semplice: tralasciando che solitamente cambiando l’ordine dei “Fattori”
il risultato non cambia, sta meglio il Mulo che ha capito da che parte si
trova la discesa e sta meglio il Porco che ha capito come aprire il cancello
della porcilaia... (…) Cap. XIII La fragile ruota del carro che procede sul
greto morto del fiume Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta Siamo sempre stati
servi: il Papa, Venezia, Napoleone, il ferro, la società elettrica, il
cemento, la comunicazione di massa, l’ignoranza... Solita storia: … ogni volta una faccia diversa ma sempre lo
stesso padrone. Io non ho mai ben capito perché sentiamo così tanto il
bisogno di avere un padrone. Forse soltanto perché siamo timidi, forse
abbiamo paura di fare da soli, forse abbiamo solo paura di prenderci la
responsabilità di ammettere che abbiamo scelto la strada sbagliata. Ma il
problema del padrone non è un vero problema. Se tra i padroni ci fosse stato
qualche grande Maestro a cui
sottomettere la nostra naturale timidezza, lo avrei fatto anche io, davvero,
senza troppi problemi. Ma dov’erano i grandi Maestri di cui sentivo il bisogno? I miei grandi Maestri sono sempre stati quelli che
si sono battuti contro il “padrone”, compresi quelli che hanno perso, quasi
tutti; quelli che hanno vinto, invece si sono troppe volte preoccupati di
diventare i nuovi padroni, quasi con la stessa fretta con cui hanno cercato
di togliere di mezzo quelli vecchi. I giorni che
seguirono a quel funesto incontro metropolitano furono davvero concitati.
Quel vestito e quel ghigno, così assolutamente superiori, erano stati l’ultimo
segnale d’allarme. Serviva mettere tutti gli “Animaletti” sul carro ed
affrontare il sentiero di guerra. Non eravamo preparati fino in fondo, ma per
quello che potevamo eravamo abbastanza preparati. Loro stavano tramando
qualcosa di nuovo, dovevamo agire. Un’ulteriore trama ostile alla nostra
condizione avrebbe comunque “traboccato il vaso”. La strategia di
attacco che avevamo scelto apparteneva alle più consolidate tecniche di
guerra: aprire un varco tra le mura nemiche con un perentorio attacco esterno;
questo li avrebbe sorpresi e occupati per il tempo che serviva a noi per
completare le mappe del castello e consegnarle alle seconde linee. Il resto
avrebbe dovuto venire da sé, quasi come una naturale conseguenza. Il nostro
ruolo si sarebbe limitato a questo. Il resto avrebbero dovuto farlo gli
altri. Noi avremmo comunque garantito il nostro ulteriore supporto se ce
l’avessero chiesto. Questo era il nostro disegno. Ma purtroppo non avevamo
calcolato che il nostro carro non dava grandi garanzie di fiducia. Sembrava
infatti un vecchio carro di legno che procedeva a fatica sul letto
dell’ennesimo fiume già morto. Ogni sasso che si metteva tra la strada e la
ruota lo faceva sobbalzare e non rare volte cadeva qualcosa per terra. Forse
“vestirlo” un po’ meglio sarebbe bastato ad incoraggiare i nostri alleati, ma
il vero problema era soltanto uno: … se
credevano davvero alla causa, il “vestito del carro” non avrebbe diminuito
entusiasmo e passione di fronte allo scontro. (…) Io non credo che sia necessario “imparare”. Credo
però che sia necessario che “occorra imparare”. Semplice no? (…) Cap. XIV Il vaso delle viole sopra un davanzale suscita
quasi sempre dei buoni sentimenti ... e fate bene a protestare Qualche volta
cadeva un po’ di neve. Sempre più raramente, ma se ne accorgevano soprattutto
quelli che le davano ancora un significato naturale. La neve nascondeva ogni
rumore. Improvvisamente ogni cosa diventava silenziosa. Anche la ferriera,
anche la strada. Tutto diventava una grossa bolla di vetro, chiusa. I rumori
restavano fuori, arrivavano soltanto alcuni confusi suoni, ancora
riconoscibili ma finalmente innocui. Quella volta
invece: … niente neve. Così il
rumore era diventato ancora più forte. Insopportabile. Cercavo di non
pensarci, ma non era sufficiente. Provavo a pensare a tutte le più belle
cose, ma non era sufficiente neanche questo. Perché ogni volta che ci
provavo, immediatamente sentivo una fastidiosa sensazione di “minaccia del
cambiamento”. Dovevo riorganizzare la mia unità di misura, era diventata una
questione importante. Provai ad inventarmi un piccolo esercizio: ogni volta
che osservavo qualcosa che doveva essere cambiata, nonostante la mia opinione
contraria, provavo ad immaginarmi nella testa di quelli che la volevano
cambiare. L’esercizio non servì proprio a niente. Infatti, lo stesso
esercizio mi portava immediatamente ad immaginarmi in quella stessa cosa, e
ogni volta la risposta era una sola: … perché
vi occupate di me se non vi ho chiesto nulla!? Così, alla fine di tutta
questa pantomima, ritornavo sempre alla mia realtà delle cose… sempre un poco
più cattivo di prima. Era comunque una
situazione difficile e loro avrebbero quantomeno dovuto capire che la nostra
intenzione era mossa da legittime e concrete necessità. Del resto avrebbero
anche loro potuto provare a fare il mio stesso esercizio. Ma non fu così, non
è stato come osservare il vaso di fiori ben curato e messo sopra il
davanzale, che lo puoi guardare dall’interno della stanza o dal marciapiede,
e provare sensazioni diverse ma in genere comunque serene… è stato come
guardare il vaso di fiori dal marciapiede mentre dentro la stanza qualcuno
sta ballando con la tua fidanzata. Ecco di cosa ci hanno accusato: di ballare
con la persona sbagliata… (…) Ho solo ricordi confusi di mia madre. Ero seduto
sul tavolo della cucina e lei mi stava sistemando il grembiulino nero per la
scuola. Ricordo le sue mani e la sua faccia. Ricordo che stavo applicando i
miei primi rudimenti di grammatica e lessi, con l’accento sbagliato, la marca
del caffé: Su-er-te. Mi diede un bacio e sorrise. Nessuno dei due conosceva
il significato di quella parola ma eravamo felici lo stesso… (…) Cap. XV Le difficili idee alternative di un “germano
irreale” tra i germani reali Avrei dovuto sparare io a quel cane. Non avrei dovuto
lasciate che un terzo gli sparasse… Me ne sarei
comunque andato all’inizio di giugno. Incompatibilità. Ero incompatibile. Sapevo anche che l’attacco finale
avrebbe ulteriormente confermato questa mia incompatibilità di fondo. Inoltre
non mi è mai andato di prendere le cose troppo seriamente, soprattutto quando
dopo la serietà della “genesi” subentra quel senso di “seriosità della
continuità”. Dopo la grande battaglia finale quindi me ne sarei andato, anche
in caso di vittoria. Era davvero così. In un certo senso si trattava della
mia congenita necessità di disordine, o forse ero solo un po’ stanco. Ero in
ogni caso assolutamente consapevole che comunque fossero andate le cose
nessuno mi avrebbe mai chiesto di proporre “la mia idea alternativa”. In
quegli anni, infatti, chiunque ne aveva una migliore della mia, anche quelli
che mai si sarebbero sognati di combattere per cambiare l’idea alternativa
corrente. Per loro occorreva solo che qualcuno uscisse sul campo di battaglia
per buttare definitivamente nel fosso quella schifezza. Ecco cosa occorreva,
niente altro: liberare il campo a tutte le “idee alternative” tenute nascoste
fino a quel momento… sperando che alla fine sarebbe stata scelta l’idea
migliore... Per me la
“vittoria” non avrebbe significato “conquista”, non mi interessava
distruggere per poi prendere il posto di chi aveva distrutto prima di me, mi
interessava soltanto fermarli. Sarebbe bastato ad aprire gli occhi di tanti,
sufficiente a cambiare qualcosa. Era solo un inizio, ma per me poteva
bastare. Andare oltre avrebbe potuto compromettere i miei ideali, e questo
non era quello che volevo. Io volevo solo colpire, colpire per fare del male
era il mio solo obiettivo... il resto non mi interessava. Qualcuno avrebbe
riconosciuto nella mia fuga la scelta giusta, avrebbe pensato che nella mia
bilancia delle cose, nuove cose meritavano maggiori attenzioni. Qualcuno mi
avrebbe anche augurato “buona fortuna”, poi tutti avrebbero dimenticano
presto. Molti di loro infatti non avevano mai nascosto il desiderio di darmi
un “calcio nel culo”, soprattutto quelli che con gli “occhi aperti” avrebbero
dovuto ammettere che avevo ragione. Evitargli anche solo l’onere di alzare il
piede era un’occasione d’oro... (…) Ogni volta che immagino come avrebbero dovuto
finire le cose mi ritrovo davanti le stesse cose di prima. Quei maledetti
sono riusciti così bene a riempire di pensatori lo spazio destinato al
pensiero che alla fine non serviva nemmeno più pensare. Anche i pensatori più
combattivi avevano pensato che smettere di pensare era l’unico pensiero
importante. Il cerchio si era chiuso, e dentro a quel recinto chiuso ci stavo
anch’io… (…) Cap. XVI Una “nuova città” non significa necessariamente
che sia diversa da quella vecchia Quando sono arrivati i predicatori loro avevano la
bibbia e noi la terra. Oggi noi abbiamo la bibbia e loro la terra Quel Palazzo di porci! Li ho sempre odiati.
In fondo in fondo li ho sempre odiati. Anche quando ritenevo che le cose
andavano come dovevano andare, non li sopportavo. Erano inutili, proprio come
le scoregge nella bufera. Eppure avevano costruito ogni cosa così bene che
qualsiasi azione esterna che interferiva con il loro proseguire contribuiva
semplicemente all’inerzia del loro andare. Tutto qui... ogni azione esterna,
ancorché di disturbo, si traduceva semplicemente in movimento, un movimento
nient’altro che “necessario”. Sapevano infatti di essere enormi e sapevano
anche che degli “innocui disturbi esterni” non avrebbero certo interferito
con la loro direzione, anzi, avrebbero contribuito all’alimentazione del loro
movimento. Era un grosso risparmio, soprattutto per un’enorme baracca
travestita da “palazzo” che per funzionare aveva sempre più bisogno di
maggiori quantità di carburante. Era proprio così. Io alla fine di
tutto sarei andato al nord. Avevo scelto un posto dove il clima era molto più
simile a me. Dove la mia naturale tendenza a vivere nel caos era
assolutamente ben bilanciata dalla rigidità del clima. Dove nessuno in ogni
caso mi avrebbe mai chiesto cos’era successo. Così ero abbastanza tranquillo.
La mia direzione era già calcolata, quasi ovvia. Torba e laghi, silenzio ben
distribuito, nessuno che ha voglia di fare domande inutili. Una terra che
avevo idealizzato, come faccio per tutte le cose di cui mi innamoro. Per
tornare mi sarebbe bastato il tempo di ritrovare un po’ di nostalgia per i
miei luoghi d’origine, gli stessi che solo da lontano sarebbero sembrati più
vicini di quello che invece stavano diventando. (…) Siamo formati da un’infinita serie di piccoli
difetti. E non è un problema, sempre che rimangano tali... (…) Cap. XVII Quando si dice “è arrivato il momento di
agire” … giù la testa, coglione Era arrivato il
momento di agire. Le “bombe” erano state piazzate nei giorni precedenti, proprio
nei punti studiati al dettaglio. Nonostante il dubbio sul risultato finale
ero eccitato come un bambino davanti al carro di Babbo Natale. Avevamo messo
delle piccole cariche davanti al “palazzo”, alcune lungo il vialone
d’ingresso e la “meglio fornita” sul cornicione più alto. Caricate a
ventaglio, un micidiale “ventaglio di fuoco”. Un diverso concetto di “fuochi
d’artificio”. I miei compari avevano ognuno un proprio ed esclusivo compito
che fu eseguito alla perfezione. Rimaneva soltanto la detonazione e la scelta
della migliore zona di rifugio prima dell’assalto finale. Non prima di avere
il tempo di restare a guardare per qualche istante quelle facce riempite di
“merda”, incredule e incapaci davanti a quella “pioggia di fuoco”,
inconsapevoli di quello che stava accadendo… Era un piano ben
congegnato, studiato per fare del male quanto bastava. I “malcapitati”
avrebbero potuto intendere che si trattava di un’isolata e disperata azione
di guerriglia, ma molti avrebbero certo capito che era l’inizio della guerra.
Invece non è successo proprio niente: nessuna detonazione e nessuna goduta
attesa prima dell’attacco decisivo. Come spesso accade nei sogni, infatti,
qualcuno ti viene a svegliare nel momento più importante. E ti ritrovi da
solo, come quando ti svegli da un incubo, sperando che avanzi del tempo per
riuscire a riaddormentarti e non ricordare più niente al risveglio. In caso
contrario non ti resta che alzarti per andare a pisciare e sperare che basti
un caffé per svegliarti davvero. (…) Non mi fido di chi non beve caffé. Non è
fisiologicamente concepibile … (…) Cap. XVIII L’ottimistica ideologia del ratto È da tempo noto che la grafiosi dell'olmo sta
dilagando in modo devastante nel territorio italico. La nostra “Grande
impresa” si era trasformata in un completo disastro. Una vera e propria
disfatta: eravamo caduti nel fiume! Ma non erano stati i cannoni di guardia
del “palazzo” ad “affondarci”. Si era trattato di un’avventata manovra di
navigazione durante l’avvicinamento decisivo. Nel tentativo di tenere il
passo di quell’irraggiungibile corazzata, la nostra già malridotta chiatta di
legni vecchi aveva sbattuto contro qualcosa di enorme: un sasso, un tronco di
platano incastrato tra gli argini, il “cadavere” di qualche precedente
sfortunato relitto; una di queste cose, o forse un maledetto cedimento
strutturale. Forse avevamo calcolato male la profondità di quel canale. Andammo a fondo
come fanno gli ubriachi alla festa del santo. Era proprio il fondo… Noi siamo abituati
a stare in fondo, facciamo la vita del ratto. Anche quando stiamo in alto,
stiamo nella parte di fondo che sta in alto. Quando siamo in basso, siamo
davvero in basso. Credo che sia una nostra precisa connotazione etologica: … stiamo in fondo perché abbiamo imparato
che solo dal fondo si può risalire; oppure perchè forse, in fondo in fondo,
ci piace. Chi può dirlo? La vita dei ratti comunque può sembrare molto
semplice ma ti assicuro che non lo è, ci sono intere pagine di grandi libri
che raccontano La filosofia del topo
e non tutte arrivano alle stesse conclusioni. Vuol dire che è un argomento da
non sottovalutare, mai… (…) Quando la barca affonda il topo sa che riuscirà a
galleggiare comunque. L’importante e che la riva non sia troppo distante… (…)
Cap. XIX L’altra faccia della sfortuna non sempre si
chiama fortuna It could work!! Non ci fu nessuna
esplosione. Le nostre “bombe” erano state scoperte e disinnescate già il
giorno prima, e ad aspettarci c’erano solo i soldati, pronti ad arrestarci,
pronti a completare con la fucilazione il nostro più completo fallimento. Ma
il nostro naufragio, con tutti i suoi lati negativi, rovinò la loro “festa”.
Quei “servi gendarmi” restarono infatti ad aspettare con i fucili spiegati
fino a quando non fu ritrovato il cadavere del nostro carro ormai
abbandonato. Noi ci eravamo già dileguati in ogni angolo di quella città, in
cerca di un rifugio sicuro e del più completo anonimato. Non so quale sia
stata la sorte dei miei compari perché ognuno di noi si dileguò per la sua
strada. Posso solo dirti che in tutta quella “sfortuna” il nostro naufragio
fù un episodio davvero fortunato… Il crollo
repentino degli eventi ci obbligò al più completo silenzio, alla fuga, al più
profondo esilio. Per paura di essere scoperti evitammo ogni tipo di contatto.
Per sempre. Mi spiace solo di
non essere riuscito nemmeno a disturbare un pochino la fastidiosa presunzione
di quei bastardi. Ad esempio mi sarebbe bastato anche solo riuscire a
lanciargli sopra un po’ di “guano” prima del nostro “comunque dovuto” linciaggio
finale. Oppure mi sarebbe anche solo bastato rubargli le bottiglie e i
prosciutti tenuti da parte per la festa, oppure le fidanzate, oppure dar
fuoco alla loro impenetrabile baracca. Qualcosa di “fastidioso” comunque mi
sarebbe bastato... Niente di tutto questo: il nostro disegno era incompleto e
qualcosa non aveva funzionato; abbiamo fatto tutta questa fatica per
niente... (…) Provo una certa soddisfazione nel pensare che la
nostra disorganizzazione rovinò anche i loro piani. Non mi levo dalla testa
l’immagine delusa di quelle facce altrettanto deluse di fronte alla nostra
manifesta impreparazione. Sembra quasi che abbiamo affondato il carro di
proposito. Sembra proprio così... (…) Cap. XX Le nostre personali teorie sull’inizio e sulla
fine delle cose … comprendete ora che i guai e disagi ci sono ripagati
non solo dai risultati scientifici, ma anche da qualcosa di molto, molto più grande? (…) Proprio così. Ecco… dentro a tutti i nostri
propositi di guerra le cose sono andate proprio così. Nonostante tutte le
nostre fondate ipotesi di vittoria, abbiamo perso. Prima ancora di iniziare.
Prima ancora di accendere il cannone. Che brutta situazione! Che brutta
sensazione! Partita persa senza essere stata giocata! La sensazione peggiore
che si possa provare. Proprio così. Quasi come il ragazzo che si trova
davanti alla sua prima occasione di “entrare”, siamo venuti e subito andati.
Pronti a riprenderci ma ormai compromessi. (…) Loro avevano
lasciato che piazzassimo con cura tutto quel prezioso carico di “esplosivo”
per poi aspettarci a cannoni spiegati mentre imboccavamo arditamente la “via
maestra” con il nostro “carretto da fiera”. Pronti a ricordarci che eravamo
“fuori strada”, pronti a ricordarci che sapevano già tutto, orgogliosi e
presuntuosi, sicuri... Informati da uno dei nostri, un infame qualsiasi che
certamente oggi sarà diventato uno di loro… ancora più di prima. Quando si
accorsero che tutto si era rivelato un vero fiasco non sprecarono nemmeno il
tempo per venirci a cercare. Lasciandoci quasi senza niente, nemmeno senza la
“condanna finale”. Come a ricordarci che l’assenza di giudizio era la
condanna meritata, consapevoli che l’esilio vale quasi come una condanna a morte, soprattutto se si tratta
di esilio da consumare in solitario e assoluto silenzio. Capisci?… Alla
fine di tutto, fu la consapevolezza della sconfitta la cosa peggiore. Io e
gli altri “piccoli animaletti” non ci siamo ancora del tutto arresi ma di
fatto è stata una resa senza condizioni. È stata una scelta difficile ma anche
la scelta più logica: … scegliere
niente se niente è la scelta migliore. Ma non è così semplice come può
sembrare, è stato un boccone davvero amaro. Obbligati a ritornare nel fosso
da cui siamo venuti e in cui siamo destinati a restare. Perchè se il fosso ci
appartiene, è giusto che il fosso sia l’unico nostro destino. Così sono di nuovo
al punto di prima. L’inizio e la fine hanno la stessa identica forma: … la forma del mio divano. Sono passati
dieci anni! Dieci lunghi anni, forse neanche un giorno… o più semplicemente
solo il tempo che c’è voluto per spiegarti qualcosa. Del resto, se non hai
perso il “filo logico di tutta questa complicata faccenda”, puoi anche
pensare che niente è mai troppo diverso da come lo abbiamo lasciato, se non
che nella maggior parte dei casi è spesso peggiorato … almeno dal mio punto
di vista. Ma forse anche dal tuo… Perché ognuno di noi ha il suo “palazzo
nemico”, sei d’accordo? Non importa… comunque la mia “non condanna” non ha
avuto condizioni, ma nel giudizio finale ci ho messo anche del mio, quasi per
ricordarmi che allo scadere di questi dieci anni servirà metterci qualcosa di
meglio, magari qualcosa che ho trovato in questi anni di pensieri e di studi
ulteriori. I miei compari, quelli buoni, saranno anche loro nel proprio
angolo di divano a raccontare a qualcuno che cosa è successo. Anche loro
penseranno che qualcosa è successo, ma non sapranno davvero che cosa. E alla
fine di tutto, senza sapere se è successa la cosa giusta o quella sbagliata,
ognuno di noi finirà il suo discorso con le stesse identiche “belliche
parole”: … domani si ricomincia. Amico! (...) Maggiori dettagli non credo che servano … (…) Testo
citato: Cap.
I The Rime of the Ancient Mariner (S. T. Coleridge) Cap. II Kill Bill (Q. Tarantino) Cap. III Angel Heart (A. Parker) Cap. IV Riders on the Storm (J. Morrison) Cap. V Tropic of Camcer (H. Miller; trad. L. Bianciardi, G. Almanasi) Cap.
VI Patagonia express
(L. Sepulveda; trad. I. Carmignani) Cap.
VII Il Signor G incontra un albero (G. Gaber, S. Luporini) Cap.
VIII Teorema di Pascal
(B Pascal) Cap.
IX Li belli gladioli
(E. Bennato) Cap.
X Il merlo (P Ciampi) Cap.
XI Zapiski iz
podpol´ja (F. M. Dostoevskij; trad. L. De
nardis) Cap. XII Animal farm (G. Orwell; trad. G. Bulla) Cap.
XIII Laudes creaturarum
(San Francesco d’Assisi) Cap.
XIV Conitnuavano a
chiamarlo trinità (E. Barboni) Cap. XV Of mice and man (J. Steinbeck; trad. C. Pavese) Cap. XVI Custer Died For
Your Sins: An Indian Manifesto (V. Deloria Jr; trad. A. Russo) Cap. XVII
Giù la testa (L.
Vincenzoni, S. Leone, S. Donati) Cap.
XVIII Coleotteri
scolitidi e grafiosi dell'olmo. Prove di controllo combinato (M. Faccoli) Cap. XIX Young Frankenstein
(G. Wilder) Cap. XX Er redete mit dem Vieh, den Vögeln und den Fischen (K.
Lorenz; trad. L Schwart) Note: 1. Marca danese di tabacchi 2. Artigianato della pipa 3. Hotel ristorante a Bowmore sull’isola
di Islay in Scozia 4. Storica linea di produzione di Brebbia
Pipe 5. Piccolo passeriforme della famiglia
delle Silvie (Sylviidae; Capinera – Sylvia atricapilla) 6. Piccolo passeriforme della famiglia dei
Paridi(Paridae; Cinciallegra - Parus major) |
Ducoli’s web site © 2007 |